Pubblicato da Alessandro Violante il agosto 8, 2016
Winter Severity Index, progetto romano di Simona Ferrucci ed Alessandra Romeo, ha pubblicato, pochi giorni fa, un nuovo album dal titolo Human Taxonomy, degno successore del precedente Slanting Ray, che le aveva portate all’attenzione di realtà nazionali ed internazionali. Pur rimanendo fedeli alle proprie radici, Winter Severity Index hanno intrapreso, col nuovo album, una direzione più particolare, focalizzandosi sulla dimensione strumentale dei loro brani. Le intervistiamo oggi per cercare di capire lo stato del progetto.
Ciao Simona, ciao Alessandra! E’ un piacere parlare con voi. Raccontateci un po’ la storia del progetto e perché avete scelto questo nome.
Ciao Alessandro, Winter Severity Index è un progetto nato nel 2009 come una band tradizionale, composta da quattro elementi. Con questa prima formazione, ha visto la pubblicazione del primo EP autoprodotto Winter Severity Index nel 2010, distribuito da AF Music e presto andato sold out. Nello stesso anno e nel 2011 la band ha ricevuto già moltissimi apprezzamenti e ha cominciato la sua attività live a livello europeo. Nel Gennaio 2012 il progetto si è trasformato in un duo, dopo la decisione di Diana Salzo e Valeria Tirabassi di lasciare la band. Quindi (parla Simona Ferrrucci) ho continuato collaborando con Valentina Fanigliulo, a.k.a. Mushy realizzando l’EP Survival Rate, pubblicato nel 2013 da Blood Rock Records solo in vinile. La collaborazione con Alessandra Romeo ai synth ( ex Cat Fud e Bohemien) è iniziata già nel 2012 in occasione di un live con The Chameleons Vox. Assieme abbiamo realizzato il primo full length del progetto, Slanting Ray, nel 2014 per Blood Rock Records (doppio vinile) e Manic Depression Records (CD), al momento sold out, oltre ad intraprendere una ricca attività concertistica in moltissimi paesi europei. Ci accompagna nelle performances live Giovanni Staccone al basso. Il nome Winter Severity Index indica in meteorologia i picchi più bassi delle temperature registrate durante l’inverno. Allo stesso modo, la musica si fa registrazione di momenti difficili, in cui la nostra vita viene in un certo modo messa alla prova, e durante i quali si impone una riflessione per il loro superamento.
Parliamo più nel dettaglio di Human Taxonomy. A me è sembrato una sorta di concept album, o forse ho cercato di trovarcelo io. Di che parlano i vostri nuovi brani?
Human Taxonomy (Tassonomia umana) nasce da una riflessione sulla pressante volontà classificatoria dell’essere umano non solo nei confronti della realtà a lui circostante ma anche di se stesso. L’uomo ridotto ad una categoria, incasellato in un ruolo che deve necessariamente ricoprire per essere riconosciuto dalla società, vede sostituire la sua personalità con un modello precostituito, al quale sente in qualche modo di dover aderire, rivendicando, tuttavia, l’esigenza di differenziarsi da esso. Ma anche nel suo dichiararsi diverso, a volte, l’uomo incappa di nuovo in un gioco di maschere ed etichette dal quale è difficile liberarsi definitivamente. Ne consegue un senso di dolorosa alienazione dal suo essere più intimo, che rivendica, infine, la libertà di vivere nelle sfumature e nelle ambiguità. Le atmosfere musicali di quest’ultimo lavoro, i testi, il concept visivo rimandano a questo senso di scissione dolorosa fra volontà di differenziazione ed affermazione delle proprie caratteristiche individuali e la necessità di adeguarsi invece ad un cliché sociale precostituito per essere riconosciuti nella società umana. In un certo senso si tratta effettivamente di un concept album, non di una semplice raccolta di brani e di suggestioni rimandanti ad una particolare atmosfera, come poteva essere invece considerato il nostro precedente lavoro.
Mi sembra che, rispetto a Slanting Ray, ci sia stato un certo cambiamento nel vostro suono. Questo album mi sembra molto anni ’80, ma con dei suoni non banali, molto duri e “fisici”. Avete voluto recuperare l’estetica (post)punk in maniera più chiara?
Il ritorno alle radici post-punk è forse rintracciabile negli arrangiamenti più scarni, una costruzione minimale e maggiormente aggressiva dei pezzi, funzionale all’espressione di concetti più legati ad un tormento individuale insanabile, piuttosto che ad un senso di malinconia, come nel precedente lavoro. Quindi si è trattato evidentemente di una scelta funzionale all’espressione di questa sensazione di conflitto esistenziale. Ovviamente non pensiamo che questo nuovo album sia semplicemente definibile come un album post punk, c’è molto di più, una contaminazione con altre sonorità provenienti da altri generi e da altri ascolti. Chiaramente non sappiamo dire in quale percentuale queste influenze siano presenti, quando suoniamo non pensiamo alle etichette, anzi, cerchiamo di disfarci di qualsiasi elemento che inevitabilmente causerebbe frustrazione e limitazione.
Come funziona il processo compositivo? Quanto c’è di Simona e quanto di Alessandra in un vostro brano?
Non possiamo mettere sulla bilancia il nostro apporto in maniera globale, infatti anche all’interno dell’album volutamente non abbiamo scritto chi suona cosa. Il progetto, sebbene sia una mia creazione (Simona), in questo momento è un duo. Anche se spesso la struttura compositiva è maggiormente opera mia, i pezzi vengono costruiti insieme, si lavora assieme ai suoni e alle rifiniture.
Com’è la scena a Roma? So che, ad esempio, c’è un festival new wave con cui Simona, se non sbaglio, collabora. C’è spazio lì per la vostra musica?
La scena Romana è stata messa particolarmente in crisi dalla chiusura di moltissimi locali nei quali era possibile suonare musica dal vivo. Ovviamente il problema non riguarda solamente la new wave ma tutta la scena alternative. La speranza è che si tratti soltanto di un momento di transizione e che presto si creino nuovi punti di ritrovo per la musica indipendente. Per quanto riguarda Distanze, il festival al quale si faceva riferimento, non sappiamo se ci sarà la possibilità di fare una terza edizione, principalmente per problemi riguardanti la scelta della location. Speriamo di farcela comunque, magari nel 2017.
Simona, tu hai un background di studi riguardante la Storia dell’Arte. Pensi che ci sia qualche corrente o qualche artista che abbia influenzato e che influenzi la tua musica?
Essendo laureata in Storia dell’arte Contemporanea, penso che la conoscenza di processi creativi che scardinano la figura dell’artista come genio isolato, quasi illuminato dal divino, abbia notevolmente influenzato il mio approccio alla creatività. In particolare penso sia stato importante per la mia formazione la piena convinzione dell’opportunità di guardare il fatto artistico, e creativo tout-court, con un approccio funzionale, volto alla risoluzione di un problema espressivo attraverso la costruzione di strategie comunicative che utilizzano pochi elementi basilari nella maniera più efficace possibile. Sostanzialmente la distruzione del concetto romantico di ispirazione, la consapevolezza che nessun fatto artistico possa considerarsi irrelato da ciò che lo ha preceduto, il superamento del concetto di avanguardia come volontà di dominio idealistico sulla realtà della propria epoca, il rifiuto della fascinazione per la tecnologia senza analizzarne fino in fondo i riscontri sociali e le conseguenze del suo utilizzo dal punto di vista antropologico…sono tutti concetti che ho precedentemente affrontato per quanto riguarda altri ambiti artistici dal punto di vista critico e storico e che sento come imprescindibili punti di partenza per la mia personale riflessione. Non penso ci sia un artista in particolare che possa aver avuto una preponderante influenza sul mio processo creativo, ma credo che molti fenomeni relativi all’arte visiva degli anni Ottanta siano molto affini al mio punto di vista. Penso ad esempio a Bill Viola, al suo modo di utilizzare il mezzo video come koinè su cui basare una nuova comunione umana, il rifiuto della fredda speculazione concettuale, l’attenzione piuttosto rivolta verso le forme basilari dell’espressività umana attraverso le quali vengono veicolati i sentimenti, che trovano nel filtro culturale attraverso il quale sono proposti, una forma di amplificazione mediatica, un gioco di rimandi archetipici che parlano direttamente agli strati più profondi della nostra psiche, piuttosto che ridursi ad una sterile forma di colto citazionismo.
La vostra musica mi sembra un chiaro omaggio agli anni d’oro del genere post-punk / new wave. Quanto quegli anni sono stati importanti per la vostra formazione musicale? Siete influenzate anche da altri generi?
Ovviamente sono stati molto importanti. Sia Alessandra che io abbiamo cominciato a suonare sulla scia della nostra passione per la musica post-punk / new wave. Ciò è avvenuto per entrambe insolitamente in un periodo nel quale non c’era particolare attenzione mediatica per questo tipo di musica, semplicemente non era per nulla “di moda”. I nostri coetanei che si avvicinavano alla musica suonata erano principalmente attratti dal rock di diretta derivazione blues, dal grunge, dal metal…Non abbiamo vissuto “in diretta” l’epoca che più ci ha influenzato musicalmente parlando, eravamo entrambe poco più che bambine negli anni Ottanta. Ma non penso sia stato casuale scoprire in quel tipo di sonorità una precisa consonanza con il nostro mondo interiore. Chiaramente la stessa vena riflessiva e intimista, le stesse sonorità sono presenti anche in altre correnti musicali che sono state ugualmente di ispirazione per la nostra musica. Ci siamo cibate anche di trip-hop, elettronica, post-rock, shoegaze, synth-pop, kraut, psichedelica…
Spostiamoci dalla dimensione musicale a quella dell’ascoltatore. L’ascoltatore del 2016 è diverso da quello dei primi anni ’80? La sottocultura legata al post-punk / new wave ha cambiato i propri codici nel tempo o è rimasta identica?
Nei primi anni Ottanta io ero molto presa dall’imparare a camminare, mangiare la pappa, giocare con le farfalline attaccate sopra alla culla, ehehehe…Immagino di sì, mi sembra molto logico pensare che sia così. La sottocultura legata al post-punk / new wave è chiaramente diversa da ieri. A mio avviso non si può pensare che un determinato tipo di sensibilità appartenga solo ed esclusivamente ad un’epoca. La stessa sensibilità oggi ha sicuramente preso in prestito un vocabolario espressivo già collaudato, ma lo ha sicuramente arricchito con qualcosa di assolutamente contemporaneo. Io penso sia ora di trovare un nuovo nome a questa realtà, che si rifà sicuramente al passato per molti aspetti, ma si differenzia da esso per altrettanti. Continuare a considerare tutto come una semplice continuazione di quello che c’è stato in passato non rende giustizia né al passato né al presente, a mio avviso. Non si tratta di puro revival, ormai è chiaro. Qualche anno fa quando si parlava degli Interpol li si etichettava come epigoni dei Joy Division. Ma oggi, anche riascoltando il loro disco di esordio, chi avrebbe ancora il coraggio di dire la stessa cosa? Chiunque parli con cognizione di causa può accorgersi di quanta contaminazione con altre realtà musicali conviva nella musica che oggi si presenta con il nome generico di coldwave.
Cosa ne pensate della fruizione musicale ai tempi di Internet? Meglio l’mp3, il cd, il vinile o la cassetta? Voi quale supporto preferite e quale pensate che sia il più adatto per il vostro genere?
Meglio il grammofono! Ovviamente sto scherzando. Io penso che ogni mezzo abbia la propria dignità. Non sono una detrattrice del vinile a tutti i costi, non sono una fanatica del vintage ma penso che supporti diversi spingano ad un ascolto diverso. Il vinile è un bellissimo oggetto, adoro i vinili e penso invitino l’ascoltatore ad un ascolto più attento, meditativo. Il disco in vinile si assapora nell’intimità del proprio appartamento, magari sdraiati sul divano, bisogna andare a girare il disco alla fine del lato, non è possibile distrarsi più di tanto, è bello avere fra le mani la copertina mentre lo si ascolta. Questo è il reale motivo per il quale potrei dire che si tratta del mezzo che più rende giustizia al lavoro dell’artista. Non per motivazioni di pura audiofilia, perché penso siano questioni di differenze estremamente sottili, che solo gli esperti possono effettivamente cogliere. E la musica è per tutti, chiaramente, non solo per i fanatici dell’hi-fi. In buona sostanza non credo che l’mp3 sia la morte di un bel niente. Avere lo stesso disco in formati diversi permette di ascoltarlo in differenti contesti, anche questo è molto interessante. Quindi ben vengano gli mp3 da ascoltare in spiaggia o in metropolitana, il cd da ascoltare in macchina mentre si fa magari un bel viaggio, anche la cassetta che forse ci rimanda come oggetto a qualche ricordo d’infanzia…perché no? Perché autolimitarsi?
Parliamo della copertina. Mi sembra che, con Human Taxonomy, per la prima volta abbiate mostrato una persona, mentre nei lavori precedenti ricorrevate ad immagini più astratte, eteree. C’è un motivo specifico oppure è semplicemente accaduto casualmente?
Niente avviene casualmente nell’ambito del nostro progetto. Siamo maniache del dettaglio anche per quanto riguarda la comunicazione visuale. Mi sono occupata personalmente di tutti gli artwork, tranne che per il nostro LP di esordio, Slanting Ray, che abbiamo affidato a Giovanni Stax. Ogni lavoro ha la sua controparte visiva, la suggestione passa anche attraverso l’immagine e non fa altro che rafforzare il messaggio veicolato dalla musica. Il primo EP omonimo mostrava un’immagine sfocata di un paesaggio in bianco e nero, minimale, fredda, orizzontale, doveva enfatizzare un senso di profondo tormento e allo stesso tempo di fallimento e totale impossibilità all’azione, una sorta di tabula rasa esistenziale. Quella era la mia sensazione all’epoca, lo sconforto e la sconfitta erano presenti del resto in tutti i testi dei primi brani. Il secondo EP Survival Rate presentava in copertina una foto ritraente la mano di mia nonna che tiene in mano un melograno avvizzito. All’interno la mano era invece la mia, che stringeva lo stesso melograno. Ovviamente si trattava di un’immagine fortemente simbolica, rimandante allo scorrere del tempo, alla volontà di conservare l’innocenza malgrado il logorio della crescente disillusione. Cosa restava dopo il dolore? Cosa c’era di prezioso da salvare dopo l’esperienza luttuosa? L’EP era proprio a proposito di questo. Il primo LP Slanting Ray rendeva invece visivamente il concetto di luce residuale, di qualcosa di estremamente vitale che permane anche nella stagione più fredda, stavolta non attraverso il simbolo, ma solo la suggestione. Anche la malinconia è bellezza, anzi non esiste bellezza senza malinconia. Questo penso possa essere considerato come concetto base del nostro primo album. In questo momento abbiamo anche iniziato ad utilizzare visuals durante le nostre performance live. Alessandra si occupa di questo aspetto. Essi sono sempre strettamente coordinati all’artwork e rimandanti le stesse suggestioni. La stessa cosa è stata fatta per l’album attuale, che è stato per ora presentato live solamente al Wave Gothic Treffen. In Human Taxonomy penso sia avvenuto un passo fondamentale nelle tematiche trattate: sono passata dall’indagine strettamente interiore, dal lirismo puro, all’esame dell’attrito insanabile fra Io e società. In copertina il volto, ciò che ci contraddistingue in quanto individui, viene negato, nascosto alla vista dalla classificazione, la nomenclatura. Questo è quanto accade in ogni forma di società umana: l’uomo cessa di esistere in quanto individuo e deve necessariamente conformarsi ad un’immagine precostituita, smussare i suoi lati caratteristici che vengono visti solo ed esclusivamente come difetti. E divenire così una maschera vuota, in fin dei conti.
Esiste oggi, nel vostro genere, un “suono italiano”, oppure ci si rifa ad influenze provenienti da tutto il mondo?
Questo francamente non so dirlo con precisione. Non credo ci sia un “suono italiano”, ma forse mi sbaglio. Credo che ci siano molti suoni che compongono uno scenario assai interessante. Ma non riesco ad individuare un’omogeneità di fondo dal punto di vista del sound.
Che ruolo possono avere le webzine nel 2016? Sono veramente in grado di influenzare l’acquisto di un album, piuttosto che di un altro?
Non credo che il ruolo delle webzine sia puramente quello di supporto promozionale. Credo invece che il ruolo delle webzine sia quello di tenere vivo il dibattito su qualsiasi argomento culturale attuale, stimolare il confronto e la riflessione, fungere un po’ da specchio dei tempi.
Grazie del tempo dedicatoci. Se volete, salutate i nostri lettori ed invitateli ad acquistare il vostro nuovo album!
Grazie a te Alessandro e a tutti i lettori. Per chi fosse interessato il nostro nuovo disco è disponibile sulla nostra pagina Bandcamp e tramite la nostra etichetta Manic Depression Records, oltre che sui maggiori canali di distribuzione europei.