Pubblicato da Alessandro Violante il novembre 3, 2014
Il nome di Bryan Erickson rievocherà nel lettore tutte le ricerche a sfondo electro che accompagnano la nostra conoscenza del genere. Velvet acid christ è considerato da molti uno dei primi ascolti nel genere, uno degli act più famosi nell’ambito electro industrial, soprattutto statunitense. Dopo aver rilasciato album per le maggiori etichette del genere, prima tra tutte la defunta Off beat e poi per Metropolis e Dependent, dopo aver mutato, per la prima volta, logo ed immaginario abbandonando l’abecedario dei mostri per abbracciare visioni mentali distorte debitrici del Gaudì più ispirato o di Dalì, il musicista di Denver torna ad impartire l’ennesima lezione, la dodicesima per la precisione, di electro statunitense mescolata ad atmosfere dal gusto fortemente oscuro ed orrorifico.
Questo cambiamento visuale radicale si ritrova anche nei dieci brani di questo album, non certamente del tutto lontani dai territori esplorati in precedenza, ma senz’altro nettamente differenti rispetto all’esaltazione dei clichès del genere presente negli ultimi due lavori. Un lavoro di sintesi di due lavori originariamente concepiti come a sè stanti, Subconscious landscapes e Mauvais, il primo più sperimentale ed aperto a lidi più soft ed eterei, accompagnato dalle voci suadenti di Sabine Theroni (già Psykkle) in Barbed wire garden e in Taste the sin e di Malgorzata Wacht in Grey, il secondo più in linea con il classico stile electro aperto a declinazioni goa trance e IDM come in Eye H8 you, l’episodio più danceable del lotto. Altri brani come Evil toxinshort e Dire sono debitori degli Skinny Puppy di Rabies, ma qui non c’è nulla di nuovo sotto il sole, questo è lo stile del musicista americano, e Worlock rimane sempre il brano di riferimento.
Quel che è cambiato rispetto al recente passato è un maggiore e più attento gusto per la costruzione delle melodie ed un maggiore distaccamento dai canoni stilistici del genere, la ricerca di nuovi suoni e di nuove ritmiche, l’attenzione per stili prima inascoltati (primo tra tutti l’IDM) e vocals sicuramente meno infernali ed animalesche, molto più riflessive ed oscure, anzi, molto spesso è la musica a fare da padrona mentre la voce funge da supporto aggiuntivo.
Si pensi ad un brano come l’opener, quasi trip hop velato di un’atmosfera plumbea o alla successiva Taste the sin così in bilico tra atmosfere eteree accompagnate dalle female vocals e, in contrapposizione, bassi pulsanti che però non eccedono mai nella loro dirompenza.
Quel che questo album vuole trasmettere è una serie di brani concepiti per essere compresi dalla nostra mente, che ci permettano di immergerci nei meandri della nostra psiche, in particolar modo in riferimento a quelli più nascosti ed oscuri, caratteristica comunque sempre presente nell’operato di un artista che, in passato, ha sempre dimostrato questa sua capacità di astrarre, mentalmente e non solo, dalla realtà verso mondi fantastici (due esempi su tutti sono gli album Twisted thought generator e Hex angel).
Uno dei punti di forza e, per alcuni, di debolezza, è innegabile dirlo, è l’attaccamento, anche qui ben saldo, a suoni oscuri e legati ad un immaginario stregato / oscuro, che non mancano di insinuarsi in ben più di un frangente. Che sia una pratica kitsch o no, questa è la scuola americana e non c’è molto altro da obiettare.
Una importante prova di maturità artistica.
Label: Metropolis records
Voto: 8