Pubblicato da Alessandro Violante il novembre 24, 2014
Il Canada è da molti anni una fucina di gruppi legati alla storia e allo sviluppo della musica elettronica nelle sue mille facce e tendenze, soprattutto in ambito underground: Skinny Puppy e Front Line Assembly con le loro tendenze electro industrial che tutt’oggi influenzano migliaia di band in tutto il mondo, Psyche e Ceramic Hello nell’electro pop più oscuro e minimale, Delerium (uno dei mille side project dei già citati FLA) nella trance più ambient ed onirica, etc.
Questa tendenza continua tutt’oggi con nomi legati alle nuove correnti indie/synth pop e witch house come gli Austra, Purity Ring, Grimes e appunto i Trust; quest’ultimi sono nati come un duo composto da Robert Alfons, cantante dalla voce androgina e mutante capace di passare dal falsetto a baritoni gotici in pochi secondi, e da Maya Postepski, già percussionista dei citati Austra. Nel 2012 viene pubblicato il loro omonimo debutto per la Arts & Crafts International che presentava un synth pop distopico e malinconico e che fondeva suoni anni ottanta e tendenze dance anni novanta insieme a drum machine serrate e atmosfere aliene ed oscure, un ottimo biglietto da visita in cui il cantante si distingueva per la sua performance vocale assai particolare, perfetta per il contesto musicale, e capace di mantenere un elemento fortemente alternativo.
Ora, nel 2014, è uscito il secondo lavoro Joyland, sempre per la stessa etichetta, che cambia leggermente le carte in tavola sia a livello di formazione che a livello di suoni, pur non sconvolgendo del tutto la natura dei nostri: uscita la Postepski, i Trust rimangono il progetto solista (almeno in studio) di Alfons, che si scatena nel recuperare la sua grande passione per la trance e la dance degli anni novanta dandogli ancora più risalto, esprimendola in pezzi che in parte aveva composto ancora prima della nascita del gruppo.
Meno Joy Division e più Ace of Base quindi, anche se naturalmente stiamo banalizzando, poichè la musica conserva, tra le luci lisergiche degli strobo futuristici, angoli di oscurità sonora allucinata, la quale però è più orientata verso territori electro pop orientati al dancefloor alternativo piuttosto che verso sperimentazioni intime e introverse o ostiche, come quelle che a volte s’incontravano nel debutto.
Largo quindi ad un “salto nel tempo” fatto di arpeggi e drum machine in primo piano insieme a bassline al fulmicotone fatte per creare l’ onda sonora, rielaborando, però, il tutto in una visione nuova che fonde il tutto con pulsioni più robotiche ed alternative, come nella opener Geryon,che richiama il future pop dei Vnv Nation di fine millennio rivisto sotto l’ottica indie della generazione attuale che, grazie ad Internet, ha riscoperto suoni appartenenti a diversi periodi e movimenti musicali, decidendo di fonderli secondo il criterio del sincretismo di gusto; Capitol, uno dei singoli estratti dall’album, instaura invece una cadenza di pianoforte ammaliante e meccanica, che segna l’incedere del pezzo tra atmosfere sognanti e beat compulsivi in cui s’inserisce la bellissima interpretazione vocale di Alfons, melodica e, allo stesso tempo, aliena nel suo tono nasale, accompagnata da tastiere cosmiche e notturne, sapientemente abbinate in un grande effetto. La title track aumenta il tasso di zucchero grazie a vocals in falsetto e a ritmi da pezzo synth pop onirico, in una sorta di versione mutante degli Erasure, in cui sono le linee melodiche di archi a fare da protagoniste, mentre Are We Arc evoca dei Bronski Beat in versione uggiosa, aprendosi al terzo minuto in un gioco di bassline e tastiere che rimane su velocità controllate ma che incalza l’ascoltatore.
Four Gut accelera le ritmiche in un pezzo dance a piena potenza che parte sornione e serpeggiante, acquistando però sempre più elementi tra effetti elettronici e tastiere, fino ad esplodere con i suoi suoni da Depeche Mode robotici, in cui la voce di Alfons si concede un’inaspettata distorsione, pur rimanendo per il resto del brano su coordinate suadenti e barocche; il pezzo si chiude con una bellissima coda melodica contraddistinta da una drum machine in 4/4 e da campionamenti eterei con cori. Rescue, Mister, altro singolo, si conferma uno dei brani più azzeccati del lotto, lanciandoci nella pista da ballo tra luci stroboscopiche e bassi profondi e mostrando nel ritornello una voce effettata che perde ogni connotato di genere, in un falsetto androgino che richiama quelli della dance più popolare degli anni novanta. La conclusiva Barely riporta il tutto su tendenze più calme e malinconiche, supportata inizialmente solo da tastiere minimali sulle quali si staglia la voce del nostro, aggiungendo poi effetti vari in un crescendo che, dopo l’intervento di un flauto etnico, trova sfogo in una cavalcata da luci laser che richiama le atmosfere grandiose e cosmiche della precedente Capitol, implodendo in un suono melodico e notturno.
In definitiva un caso in cui più le cose cambiano più rimangono le stesse, Joyland conserva tutti gli elementi che distinguono i Trust come gruppo, soprattutto la voce di Alfons e i suoi falsetti e l’uso delle tastiere minimale e notturno, e non può essere scambiato per il lavoro di un altro progetto, ma allo stesso tempo non è una riproposizione in toto del primo disco, il quale era certamente più oscuro, melodrammatico e sperimentale, mentre qui siamo in una discoteca a metà tra decenni diversi in cui tutta l’esperienza dance del passato, non necessariamente alternativa, viene rivista da quello strano, nostalgico mutante che è Robert Alfons.
Label: Arts & Crafts International
Voto: 7,5