Pubblicato da Alessandro Violante il agosto 20, 2015
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I don’t know what do to, i’m going to lose my mind. Questa frase, ripetuta all’infinito in EML ritual, riassume perfettamente lo stato mentale dell’ascoltatore della musica elettronica ballabile del 2015, una generazione che non è certo più Jilted, ma che vive un momento storico in cui il post-big beat è stato abbreviato nella sigla EDM, che rappresenta la musica ballabile adatta a tutti. C’è chi, a proposito dei Chemical Brothers, ha sempre affermato che la loro sia stata, sin da Exit planet dust, una musica democratica, che rappresenta tutti e, quindi, fotografia dell’evoluzione delle tendenze in ambito dance.
Si tratta di una generazione profondamente annoiata, che non vive più la dimensione dei rave di massa nè sente l’odore dell’asfalto di Block rockin’ beats e che non vive più nelle stanze buie e sporche di Poison, ma che compone musica quadrata per palati fini nata dentro una linda cameretta, e questa dimensione casalinga può essere chiaramente percepita dall’ascoltatore che ne assorbe l’ambiente compositivo.
Pur essendo parzialmente slegato dal trend e, per molti versi, fedele al trademark del duo della fu-Madchester, Born in the echoes è un lavoro perlopiù di maniera, che manifesta un parziale cambiamento rispetto a quanto fatto dal duo in passato, ma anche un nuovo step che nulla aggiunge e nulla toglie. Essendo un disco che, nononostante le collaborazioni, trae la sua origine da un mondo popolato da software sempre più precisi e a disposizione di tutti, è evidente la sensazione di profonda artificiosità del prodotto. Lo dimostra già ampiamente l’opener Sometimes i feel so deserted: è un brano che sembra non decollare mai, sempre giocato su quel “vorrei ma non posso”, in bilico tra brevi sprazzi lisergici e incedere dolce e coperto da un fitto strato di plastica. Il beat perde, di conseguenza, tutta la sua energia e carica e diventa oggetto da museo, rinchiuso in una teca.
La seguente Go è il brano più radio-friendly, tranquillamente inseribile all’interno della dancefloor commerciale così come in un supermercato, è un brano per tutti, in cui non basta la collaborazione del sempre ottimo (ma qui incatenato in una fitta coltre di catene) Q-Tip degli storici A tribe called quest, di cui ricordiamo episodi molto più onorevoli, già a fianco dei Fratelli Chimici nella ben più trascinante Galvanize, ancora oggi considerata un inno (ci sarà un perchè), per elevare il brano. Comunque, gli elementi per il perfetto brano di successo ci sono tutti: vocals sapientemente dosate, video figo che strizza l’occhio all’indie grazie alla sua ambientazione molto trendy, suoni estremamente catchy e groove in grado di trascinare anche il giornalaio o il cassiere del supermercato che lo starà ascoltando mentre starà battendo lo scontrino.
Under neon lights è un altro brano molto catchy, quadrato con stile, con la batteria completamente scarica, ma sorretto dalla suadente voce di Annie Clark e da fraseggi simil-chitarristici anch’essi dolci e radio-friendly, e lo stesso si potrebbe dire della successiva EML ritual, un brano scarico e visibilmente stanco, segnato dai vocals appassiti di Ali Love, che conosce un buon momento, ma sicuramente non sufficiente ad elevarlo, nel momento in cui esplode in un suono più corposo ma non per questo meno artificioso. I’ll see you there, questo insieme a Bill Bissett, è uno dei punti migliori dell’album, anche se copia a piene mani da un episodio del passato ben più carismatico per la storia del duo, Let forever be: ne sembra una sorta di rilettura in chiave strumentale, una coda carina ma non eccezionale, la quale aggiunge solo un artificioso riff di chitarra semplice quanto efficace, molto indie rock.
Just bang e Reflexion tornano su forme danceable quadrate e un po’ anonime, soprattutto la seconda, in linea con il suono più minimalista e spogliato di qualunque carica underground. Il primo episodio recupera a tratti anche dei suoni analogici, ma senza per questo conferire particolare spessore ad un ballabile senza identità. Reflexion è, come detto prima, un brano che parte con un beat minimal e che poi ingloba suoni e velleità lisergiche che ricordano alcuni episodi spacey provenienti dallo sfortunato We are the night. I ritmi si allentano invece nella successiva Taste of honey, dall’incedere lento, che ricorda nei suoni il movimento dell’ape, e che si conclude con un interessante, ma artificioso e forzato, assolo per api stordite.
Con la title track si torna su beat più groovy e ritmati in uno degli episodi più ballabili e caratterizzati da un gusto retrò lontano dai lidi EDM e molto più vicino alla musica nera: anche qui, però, i beat sono soffusi e dolci. Radiate è invece la classica ballata alla Chemical Brothers in cui la parte del leone viene affidata alla collaborazione di Colin Stetson, noto per essere uno dei personaggi principali della scena indie, che regala una sua performance vocale chiaramente english nel cui sfondo volteggia una melodia di pianoforte che si sposa perfettamente con quella del violino, fino a concludersi in una brevissima citazione ai Kraftwerk. La sirena di Song to the siren è ora rallentata, destrutturata, e diventata anch’essa un artificio, elemento di contorno che decreta la morte del beat. La conclusiva Wide open è pop catchy ballabile interpretata da Beck, un brano dal grande potenziale radiofonico, ma anch’esso scarico, dal punto di vista energetico.
Le bonus track dell’edizione in nostro possesso sono Let us build a city, un gradevole mid tempo che rievoca le grandi periferie cittadine senza evidenziarne la carica esplosiva e il loro degrado, un brano che tenta in tutti i modi di mettersi in mostra ma che rimane ottimo per uno spot commerciale. Wo ha è un altro ballabile senza troppa anima, di maniera, che pesca principalmente dal funk, destrutturandolo e fornendocene una interpretazione semplicistica. Seguono le versioni estese di Go e di Reflexion, che nulla aggiungono a quanto già detto.
Tirando le somme, con Born in the echoes, i Fratelli Chimici hanno fatto un dietro front rispetto a quanto detto con l’ottimo e kraut Further, compiendo un deciso passo del gambero, anche qualitativamente. Si tratta di un lavoro che manca completamente di uno statuto musicale e della forza propulsiva delle sottoculture che alimentarono il carburante dei due inglesi, che fotografa la crisi della musica elettronica di massa, e che ne manifesta il bisogno di ricaricarsi. E’ un disco lontano dalla psichedelia e dalla strada di Dig your own hole e dalla campagna di Exit planet dust ma anche poco propenso ad osare come accadeva invece in Push the button. Esercizio stilistico svolto con grande maestria, ma nulla di più. Disco di grande successo commerciale, ma sotto tono nella loro discografia. Se davvero i nostri, come hanno dichiarato, compongono musica mettendo insieme suoni che insieme suonino bene e facciano ballare, per la poesia, girare l’angolo a destra: qui non se ne troverà.
Voto: 6, 5
Label: Virgin EMI records