Pubblicato da Alessandro Violante il ottobre 29, 2015
Click here to read this review in english!
E’ passato soltanto un anno da quando Simon Hayes, in arte Swarm Intelligence, pubblicò il suo primo album per la berlinese Ad Noiseam, Faction, un album veramente particolare nel panorama post-industriale di confine, per via della palpabile sensazione di claustrofobia che, nella nostra analisi, rievocò addirittura il Panopticon di Jeremy Bentham (è possibile qui leggere la nostra recensione), poichè si aveva la sensazione che il suo suono fosse una prigione invisibile delimitata dai rarissimi, mai inopportuni e pesantissimi beat.
Rust è un lavoro che cambia di molto le carte in tavola, pur confermando una certa sottile linea di continuità con l’album precedente, e questo cambiamento è avvenuto in soli dodici mesi. Rust è la quintessenza di cosa possa voler dire creare musica industriale oggi, è il personale viaggio di Hayes che, dopo aver clinicamente analizzato le macerie degli einsturzende neubauten, ovvero quel poco che restava in piedi di quello che furono gli allora “nuovi” palazzi che crollarono, si concentra sull’assorbimento dei suoni (e quindi, dell’immaginario) provenienti da fabbriche abbandonate e da centrali elettriche, così come da metalli corrosi e dagli interessantissimi objet trouvé in un’ottica che fu duchampiana e che certa musica elettronica e industriale di ricerca ereditò.
Hayes stabilisce, tramite la sua cuffia, un punto di comunicazione tra il mondo degli uomini e quello industriale, svolgendo una interessante analisi che porterà, ed è questo lo scopo, l’ascoltatore ad ascoltare la rumorosa comunicazione tra le macchine. Sì, lo sappiamo, questo tema è stato affrontato già decine di volte, anche se in maniera molto più puerile e sbrigativa, ma quel che è interessante è come Hayes ci proponga una musica incredibilmente attuale e di frontiera che rimane comunque fedele ai principi primo-industriali: questa si chiama evoluzione intelligente.
Musicalmente Rust è un lavoro diverso dal predecessore perchè non propone un unico monolitico approccio, ma cerca, in parti uguali, di soddisfare tutti i palati: è un lavoro dal gusto cinematico piuttosto forte, che potrebbe farci pensare ad un’operazione simile a quella operata tanti anni fa da Rudy Ratzinger alle prese con il The Bunker of the Last Gunshots di Caro e Jeunet, con la differenza che qui il film di Hayes non è frutto dell’immaginazione di un regista, ma memoria storica dei luoghi, ora in disuso, visitati da Hayes: è come se quelle mura ormai spoglie parlassero di un passato glorioso, di sforzi mirati alla costruzione di “nuovi palazzi”, come in Excavator 288, o di Demolition ground, uno dei migliori episodi nonchè uno dei più particolari, pura sperimentazione di matrice vecchia scuola: qui vengono fatti parlare i suoni processati in un dialogo meccanico, lento e pesante, lasciando da parte qualsiasi intervento umano, per citare gli Aborym.
Non mancano quei più o meno lunghi intermezzi il cui scopo è, da un lato, farci sognare la crudezza e la freddezza dei panorami post-industriali e, dall’altro, collegare tra loro le varie scene del plot, come la opener Courtyard e le conclusive Chamber e Thierbach demolish, ma quello che veramente differenzia questo album dal suo diretto predecessore è la maggiore enfasi posta sulle trame ritmiche che, sebbene abbiano sempre un significato intrinseco ben preciso – si pensi alla genialità del rafforzamento ritmico in Iridescent il cui scopo ben preciso è dare il La ad una ritmica più profonda ed organica – sono molto più articolate e complesse, senza per questo essere ballabili. Non è certo questo il fine del musicista.
in Iridescent e nel ruolo di primo piano riservato alla ritmica dura si capisce come Hayes sia stato sicuramente influenzato dalle produzioni della label, contraddistinte da una ritmica potente e squadrata, complessa ed aggressiva, che in Faction ad esempio non era presente, e questo è un brano molto buono in cui il rumore di fondo, il ritmo trascinato ma costante, talvolta più incisivo, ed un generale mood tetro, che evoca il grigiore ed allo stesso tempo la tristezza evocata dalle pareti arrugginite delle fabbriche in disuso, convivono perfettamente, ma è forse la seguente Vibrating wire il capolavoro ritmico dell’album, che nei suoni riprende parzialmente Antenna, presente nell’album precedente, tuttavia costituendone una perfetta evoluzione caleidoscopica in cui è possibile ascoltare una sequenza di ritmiche prima più tarantolate, poi lente ed incredibilmente pesanti (ascoltate il putrido e sporco pavimento rumoristico nella sequenza ritmica più lenta per comprenderne il valore). E’ un vero e proprio upgrade per Hayes, a dimostrazione del fatto che il Nostro non ha paura di abbandonare la formula che lo rese famoso l’anno precedente.
Le frecce dell’arco di Hayes non sono certo finite, perchè dopo il già citato capolavoro di duchampiana memoria Demolition ground e dopo la splendida e già citata Excavator 288, lenta, pesante ed evocativa proprio perchè evoca il rumore di una escavatrice all’opera, si giunge a tre brani dall’altissimo valore musicale. Il primo è Low power line, anche questo cinematico, caratterizzato da un lento, pesante e trascinante beat leggermente distorto, dalla forte carica oscura ed industriale e da suoni siderurgici (nel vero senso della parola) dal grande impatto. Il secondo, Barricade, è il più veloce e il più legato alle ritmiche di matrice techno, un ritmo quadrato sul quale battono impazziti i grezzi colpi (in controtempo) delle drum machines. Il terzo è invece il lungo Attic spring, anch’esso molto cinematico, in cui il ritmo è piuttosto quadrato e solenne, marziale e raggelante impalcatura che si erge in un deserto post-industriale fatto di luoghi abbandonati e nebbia palpabile: un paesaggio post-atomico la cui perfetta collocazione spaziale è la città di Prypiat. Anche qui si ritrova una eccezionale lunga pausa rumoristica così come quel mood sonoro caratteristico dei luoghi che hanno ormai perso qualunque speranza.
Rust è un lavoro in cui, rispetto a Faction, molti più elementi differenti convivono e trovano espressione in brani ognuno dei quali possiede una propria, riconoscibilissima, identità. Rust è anche un lavoro in cui Swarm Intelligence, con grande maestria, riesce a recuperare un suono antico e a trasportarlo in una ottica moderna, confezionando un lavoro solo all’apparenza facile, ma nel quale si celano una enorme quantità di suoni processati, indizi di ogni genere, cambi di tempo e atmosfere difficilmente quantificabili. Si tratta di un lavoro da ascoltare a lungo e con attenzione, che ad ogni ascolto lascerà trasparire qualcosa di nuovo dietro la densa coltre rumoristica che spesso, inizialmente, finisce per coprirne i contorni più interessanti. La consacrazione dell’artista Swarm Intelligence, e la conferma di una grandissima annata per la Ad Noiseam di Nicolas Chevreux.
Label: Ad Noiseam
Voto: 9, 5