Pubblicato da Davide Pappalardo il dicembre 7, 2014
Ogni storia ha un inizio e una fine; può essere un finale aperto o definitivamente chiuso, un lieto fine o una tragica conclusione o, ancora, semplicemente, una sparizione senza molte celebrazioni. Nel caso specifico, si tratta sicuramente di una conclusione importante nell’ambito elettronico moderno: i Röyksopp, band svedese che ha dominato la scena del nuovo millennio a partire dall’esordio Melody A.M., firma il suo epitaffio con l’ultimo (in tutti i sensi) lavoro The Inevitable End, che era stato anticipato da un E.P. con la collaboratrice Robyn, ovvero Do it again, contenente alcune tracce qui riproposte in un’altra versione.
La carriera dei nostri ha visto il passaggio da sonorità prettamente downtempo e minimali alla presenza di elementi electro pop più sentiti, i quali hanno portato a singoli abbastanza importanti come la collaborazione con Karin Dreijer dei The Knife in What Else Is There? o al brano con la già citata Robyn The Girl And The Robot, quest’ultimo legato all’album Junior, il quale aveva spostato di non poco l’asse verso elementi più commerciali, salvo però poi stupire con il “gemello oscuro” Senior,dai connotati ambient decisamente più sperimentali.
Cosa dobbiamo aspettarci quindi da questo lavoro? Un po’ di tutto, ma sempre partendo dalla strada aperta dal lavoro più “facile”, ovvero un pop sintetico elegante giocato su suggestioni e suoni emotivi, per quanto elettronici, ora più lenti e onirici ora più lanciati sul dancefloor, senza però mai strafare o interrompere quell’aria compassata tipica del progetto.
Skulls ci accoglie con le tastiere retro marchio di fabbrica della band sulle quali si stagliano campionamenti electro house e ritmiche dal beat cadenzato e disteso, in cui vocals alla Daft Punk, robotiche, recitano la loro futuristica lezione in un suono che, nel 2014, è tutto fuorchè una novità, continuando però a mantenere tutto il suo fascino.
Monument, presa dal già menzionato E.P., è presentata in una versione decisamente meno liquida e drag, che gioca invece su linee incalzanti e sulla drum machine da disco in 4/4, presentando tutta quella serie di suoni da club che si sposano perfettamente con le delicate vocals femminili in una rievocazione odierna della decade più copiata dall’elettronica post duemila, ovvero gli anni ’80. Troviamo anche sezioni cosmiche più psichedeliche che aumentano le pulsioni al neon del brano, ennesima ballata per androidi da aggiungere alla loro discografia.
You know i have to go è un lungo pezzo decisamente più arioso ed evocativo, intimo nei suoi suoni ovattati e nelle sue parti vocali maschili delicate, così come le tastiere che evocano quasi suoni d’organo e che si sposano perfettamente nel loro lento andamento con i cori onirici e i suoni d’archi elettronici, per un brano introverso e quasi soul nella sua performance vocale sentita e sognante.
Rong è un esperimento della durata inferiore ai tre minuti costruito su una serie di pulsioni elettroniche ripetute dai bassi cadenzati. Una voce femminile decisamente pop e melodica ripete il testo esplicito in un crescendo supportato dall’aggiunta di campionamenti orchestrali di violini, in una ballad malinconica e mutante.
Compulsion sembra ricordarsi del lato più minimal house della band, stagliando beat ossessivi su campionamenti di suoni marini, presto raggiunti dalla voce maschile suadente e pacata, in un crescendo in cui trovano spazio anche suoni onirici e tastiere melodiche; Il pezzo assume poi, nel lungo finale, connotati strumentali da colonna sonora emozionale grazie alle atmosfere nostalgiche in esso evocate.
Thank you è un brano dai tempi lenti giocato sul contrasto tra giri di basso ripetuti e voce robotica sulla quale si delineano le ritmiche cadenzate e i suoni di pianoforte, in una composizione elegante e sommessa che richiama certi momenti dalla scuola francese, con la quale i nostri hanno sempre avuto più di un punto di contatto.
Goodnite, Mr. Sweetheart è una deliziosa strumentale electro pop che ci rimanda, con i suoi suoni delicati e sognanti, agli episodi più eterei del genere, in cui i beat a metronomo fanno da pulsione costante, su cui si creano le atmosfere rarefatte alimentate da linee melodiche in crescendo e tastiere pregne di una profonda malinconia.
Something in my heart chiude il lavoro traducendo in chiave synth quelli che sostanzialmente sono andamenti che non sfigurerebbero in un brano di r’n’b del tipo più elegante e meno rozzo, con batteria a schiocco di dita e cadenze elettroniche circolari in bella vista, sulle quali la bella voce maschile non perde tempo nel presentarsi in una performance “tutta cuore” in cui non sono poche le linee melodiche da essa sviluppate, in concomitanza con i crescendo di tastiera. Un suono, insomma, che, come molto spesso nella parte finale della loro carriera, coniuga andamenti prettamente elettronici con arrangiamenti e songwriting non alieni dal mondo mainstream dal quale, va detto, i nostri non hanno mai preso le distanze, trovando e cercando, anzi, ampiamente consenso in esso, pur conservando quei tratti caratteristici dell’elettronica scandinava che permettono di conservare quel quid che fa la differenza.
Non credo ci sia molto altro da dire: i Röyksopp chiudono la loro carriera con quello che è, senza molte sorprese, un loro tipico disco. Troviamo gli elementi di pop sintetico uniti ad intermezzi più ambient, il gusto per il minimalismo controllato e per le atmosfere delicate che non sfociano mai in eccessi, nemmeno nei pezzi più adatti ai club, pescando a piene mani da tendenze più house piuttosto che propriamente techno. L’eleganza è, quindi, la parola d’ordine, ma anche viaggi lisergici in cui largo spazio è dato alla combinazione tra suadenti voci femminili e maschili e pulsazioni elettroniche sempre protagoniste dell’ossatura dei loro brani. Farewell quindi, ma con la promessa che i nostri non abbandoneranno il mondo della musica, continuando, in altra sede, a produrre e a creare musica sotto altre forme.
Label: Dog Triumph
Voto: 8