Pubblicato da Alessandro Violante il dicembre 16, 2015
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Luce sia fatta su un nuovo ed importantissimo tassello elettronico-concettuale realizzato da Otur Boyd, nome d’arte di Moreno Padoan, fondatore e mastermind della italianissima label Xonar Records, di cui abbiamo parlato in moltissime occasioni. Quel che, all’ascolto di Ten Hot Injections, abbiamo di fronte, è un enorme albero i cui rami (rappresentati dai singoli artisti della cui collaborazione Padoan si è avvalso) sono accomunati tra loro da un gene comune, che in questo lavoro è la ricerca musicale di nuove forme e di nuovi termini espressivi attraverso i quali rendere il già noto.
Appena uscito in cassetta per la label LUCE SIA, ogni ramo dell’albero esplora il suono in modo differente. Dovendocisi inoltrare per enormi e poco definite foreste sonore che nascondono suoni ed approcci sepolti dalle storie delle musiche di genere, si può innanzitutto separare, sulla base dell’approccio dei singoli “brani”, il lato A da quello B: il primo è senz’altro meno incentrato sulla fisicità ritmica, più giocato sulla ricerca e sulla sperimentazione dei concetti di suono e di ritmo interno, mentre, nel secondo, sono più o meno – a seconda dell’episodio – ascoltabili ritmi più definiti di natura rituale, marziale ed ipnotica.
La prima calda iniezione rumoristica è quella di Subterranean Source in Vritra, un “brano” decisamente spiazzante, caratterizzato da una pavimentazione dark ambient in background e da una comunicazione tra canali, uno scambio di pacchetti, input ed output, e così via, in un continuo dialogo tra due parti. Sta al background del singolo ascoltatore dare un nome a questo susseguirsi di botta e risposta, rumore che risponde al rumore, una conversazione profonda di cui non conosciamo i vocaboli ed il loro significato, ma che senz’altro ci affascina.
Con White matter, però, il lavoro di Otur Boyd, qui insieme al “poeta del power electronics” Giovanni Mori alias Le Cose Bianche, si pone come scopo l’analisi del flusso rumoristico, un flusso slegato da un ritmo definito, un flusso di materia bianca che si sussegue per più di cinque minuti assumendo sempre nuove forme ed avvitandosi, in maniera solo apparentemente incontrollata, su se stesso. Trattasi, da un lato, di un episodio atipico per chi, come L.C.B, preferisce brani sui quali si stagliano parole dure come macigni, in un flusso molto vicino a quello del Kerouac di On The Road, ma non è questo il caso. La materia noise in White matter può essere, piuttosto, accomunata al flusso televisivo, concetto preso in prestito a Raymond Williams, o ad un happening Fluxus di Allan Kaprow. E’ un modo per riflettere sul carattere primordiale del rumore e sulla sua enorme forza espressiva.
Morbid sucker, questa in collaborazione con Satanismo Calibro 9, è una discesa negli Inferi catalogabile come power electronics (così come dark ambient), un brano di natura quasi aliena, per certi versi vecchia scuola. Uno dei migliori episodi dell’album è però Bod-y, questa in collaborazione con Gianluca Favaron. Da un certo punto di vista, Bod-y rappresenta la volontà di mostrare quanto il flusso cacofonico possa essere scomposto in elementi primordiali che, a loro volta, possono creare nuovi prototipi ritmici che possono, conseguentemente, dare luogo a nuovi generi e forme espressive, evidenziando così la potenza del rumore, purtroppo a volte relegato ad elemento riempitivo e posto in secondo piano. Bod-y è un tabula rasa ed una reinterpretazione di tutto ciò che negli anni è stato etichettato come body music, una critica al processo di sclerotizzazione che una musica come l’EBM ha conosciuto. E’ un tornare al less is more di certi lavori dei primi anni ’90 nel campo del rhythmic noise, ma ad un livello ancora più astratto e, all’ascolto, profondamente straniante, ma è anche un omaggio a John Cage, grazie a quei silenzi che “riempiono” la composizione.
Con Full injection, invece, questa in collaborazione con Uncodified, si torna su lidi tipicamente power electronics, con una aspra iniezione rumoristica in piena regola, tempestata da affilati coltelli rumoristico-industriali che entrano ed escono dalla carne viva sonora. Un senso di alienazione pervade indubbiamente l’ascoltatore.
Il lato B, come preannunciato, sposta il baricentro del lavoro verso due direzioni differenti: da un lato c’è la ritmica tribale e primordiale, e dall’altro c’è la sperimentazione musicale applicata alla materia rumoristica. L’esempio più chiaro, marziale e ricorsivo di ritmica di matrice primordiale, è Death of Indra, questa insieme a TSIDMZ e a Gregorio Bardini, che evoca luoghi lontani, probabilmente indiani, e un suono per certi versi molto vicino a quello di Ah Cama-Sotz di State of mind, quest’ultimo il suo più recente album uscito per Hands Productions anch’esso quest’anno.
Sweet slow collapse, questa con Noisedelik, continua ad esplorare il ritmo primordiale, ma stavolta libero da schemi ballabili-rituali, che ricorda piuttosto la vita nelle sconfinate foreste africane e gli strumenti percussivi tipici di quei popoli così lontani dal Nostro. Anche qui c’è un mood dark ambient che emerge con prepotenza. Never (enough), con Thysanura, è il più chiaro esempio di sperimentazione cacofonico-strumentale post-industriale, nonché uno dei migliori e più originali episodi dell’album. La sua grandezza sta non tanto nelle incursioni rumoristiche che ricordano, anche qui, qualcosa di legato al mondo africano, come fosse il suono di pesanti animali in fuga, quanto nel dialogo che la materia noise intrattiene con le trame disegnate dal sassofono, due mondi solo apparentemente così diversi e caratterizzati da lingue solo in apparenza antitetiche, ma capaci di comunicare benissimo insieme (si pensi anche a quanto fatto dai milanesi AU+). E’ il rumore che si nobilita.
Se How to end it all, questa in collaborazione con Valerio Orlandini, fa viaggiare l’ascoltatore su lidi più onirici e liquidi, privilegiando un’atmosfera rarefatta e surreale, la conclusiva Surrender, che, ancora una volta (ed è questo l’unico caso nel lavoro in questione) ci mostra nuovamente l’apporto di Subterranean Source, ma in una salsa ritmica più accentuata, è più vicina ad un raffinato dub, caratterizzato anch’esso da echi ritmici primordiali, che più di qualcosa hanno in comune coi rituali africani.
Ten Hot Injections è, senza dubbio, classificabile come uno dei lavori più arditi dell’anno in corso, ormai quasi concluso: un graditissimo ritorno che, di certo, faticherà a trovare una precisa collocazione, che richiederà molto tempo, attenzione, e la giusta concentrazione all’ascoltatore, ma che lo premierà con brani mai banali, dalla forte connotazione concettuale e sperimentale.
Questa è una nuova scuola, un nuovo modo di fare musica noise, ed una riflessione intelligente sulla materia bianca rumoristica e sui suoi possibili sviluppi. E’ un tornare indietro per andare avanti, un passo forse difficile, un salto nel buio che implica un ripensamento di decenni di convenzioni sonore e concettuali, ma necessario per dare nuova linfa e vitalità ad un genere che, troppo spesso, sembra bloccato in una strada senza uscita.
Voto: 9
Label: LUCE SIA