Pubblicato da Alessandro Violante il gennaio 7, 2016
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Il nuovo EP degli italiani M.O.D, duo formato da Angie Vhelena e Maryhell Mod, simboleggia, da un lato, la crisi della macchina harsh, e dall’altro l’ennesimo tentativo, in musica, di scardinare i burroughsiani sistemi di controllo, ricorrendo a beat prepotenti, essenziali melodie di stampo cyber-trance e testi diretti e chiari.
Broken machinery, che dà il titolo alla release, è più che eloquente: you think you can control it – you know you can’t destroy it – it’s much too late to face it – the fight is, so hard. Che la battaglia per l’ottenimento della libertà individuale in un sistema fittizio (alla Matrix) fosse dura Burroughs lo sapeva, e i Nostri non fanno altro che riproporre lo slogan che molti di loro, in precedenza, avevano urlato a gran voce, soprattutto nel periodo d’oro di un genere che si nutriva di cibernetica e di distopiche rivelazioni (così come della trilogia dei Wachowski) e, in uno scenario musicale in cui pochi sono i progetti ora dediti a tali sonorità, i M.O.D sono quasi una eccezione ed un progetto che segue la propria strada a braccetto coi fantasmi dei tempi che furono. Musicalmente, ci sono i suoni acid di ispirazione trance e il beat trascinante in mid tempo, pesante come un macigno.
Altrettanto pesante e marziale, arricchito da un potente inserimento di chitarra elettrica, è Crabby scary mind, un altro brano pesante e trascinante che si focalizza sulla ricerca e sull’ottenimento della libertà, un invito a tagliare via la merda, ad aprire gli occhi, a scardinare il sistema. Ci sono poi i brani più veloci e di ispirazione maggiormente trance come Ready go and try e Without regrets, altri due brani i cui testi gravitano attorno al concetto di libertà e che viaggiano veloci su binari chiaramente molto più techno-oriented. Quest’ultimo brano è quello che guarda più direttamente a quanto fatto recentemente dagli Hocico, chiaro punto di riferimento degli act di questo genere.
I remix sono il piatto forte di un EP che manifesta, grazie alla manipolazione dei brani da parte di artisti tra loro molto differenti, vari approcci tra loro ben diversi: l’unica costante è qui il brano di partenza, la titletrack. Templezone enfatizza la pesantezza dei beat, fornendone una versione più chiaramente di matrice industrial metal, anche grazie all’inserimento di chitarre forse un po’ anonime, mentre gli Artcore Machine lo rileggono in una chiave rhythmic-industrial che trasforma fortemente il brano fornendone una versione radicalmente diversa, il cui focus principale è l’esaltazione dello scardinamento sonoro del sistema di controllo in musica tramite i freddi e secchi ritmi meccanici. Ira-k Organisation e First black pope forniscono una versione più tirata e ballabile del brano, trasportandolo nella dimensione del dancefloor di un certo tipo.
Pur non innovando un genere piuttosto in letargo in questo periodo storico, i M.O.D creano un lavoro onesto, in linea con gli standard del genere, che può benissimo figurare nello scaffale affianco all’ultimo lavoro dei Messicani e a quelli del tardo Suicide Commando. Un disco a cui dedicare più di un ascolto.
Label: Self-released
Voto: 6, 5