Loss – Sick

Pubblicato da Alessandro Violante il novembre 8, 2014

loss-sickUn album sulfureo, profondo quanto la bocca dell’Inferno, electro al suo massimo, nero come la pece, tetro, lento ed elaborato. Non un lotto di brani ma un viaggio nei meandri della terra, lì dove il sole non può sorgere. Schiacciamo play e veniamo catapultati in un’oscura prigione sotterranea. Un’atmosfera sinistra ci accompagna per poco più di un’ora. Un viaggio in cui ogni brano è una tappa. Al termine del viaggio non si trova luce, anzi: l’unica via di salvezza è schiacciare nuovamente il tasto play e ricominciare il viaggio.

Abbiamo conosciuto Loss con il finissimo, di pregiata fattura, album con Philipp Münch, uscito nel marzo di quest’anno, un capolavoro dell’electro industrial che portò il nome di Transcontinental desperation. Qui però parliamo di un altro album che in una certa misura si discosta dall’album della collaborazione. Sick è un monolite lungo e pesante che ci estrania e ci fa viaggiare lì dove non osiamo andare mai, nella nostra oscurità interiore.

L’opener parla chiaro: Perdition è una dichiarazione d’intenti: il primo pensiero, ascoltando quelle sonorità space, è di essere finiti nella distopia di 2001 Odissea nello spazio del maestro americano Kubrick. Musicalmente siamo in foschi, foschissimi territori dark ambientDopo poco più di nove minuti il viaggio riprende verso l’electro, finissima, lenta, pesante e pressante, con The (Broken) Promise Ring, un episodio fortemente emozionale e sentito, patemico. Qui la voce di Dan Fox è pesantemente filtrata e incomprensibile, non esattamente infernale, piuttosto proveniente da un mondo sconosciuto (quello che l’ascoltatore può solo immaginare). I riferimenti, neanche a dirlo, sono anche gli Skinny Puppy.

Quando ascoltiamo Mania ci sembra di essere dinanzi a questa prigione futuristica, situata chissà dove, forse su LV 426, di fronte alle celle dei carcerati che battono sulle loro porte, ed ecco che poi davanti a noi si scioglie il tappeto electro, anche qui finissimo, articolato e spezzato. I breaks dominano questo episodio complesso e, al suo termine, soddisfacente. L’episodio più breve del disco è una sorta di intermezzo, Session 02 (la 01 si trova sul suo lavoro precedente, del 2013), minimale e monolitico, accompagnato dalla voce narrante e da suoni allucinanti.

And Maggots Surrounded Her (The Waste That Was To Be Part II) è un altro pavimento electro, stavolta strumentale, in cui si insinua rumore purissimo ad anestetizzare l’eventuale carica patemica che può scaturire da un brano di questo genere. Anche qui, come prima, il pavimento è molto simile a quello incontrato in Shining, sinistro e articolato. False impressions è il brano che più di tutti si costruisce intorno ad un semplice giro melodico, sempre scuro e proveniente da chissà quali profondità sotterranee in cui affiora dirompente una chitarra. C’è anche uno spazio relativo per la fisicità del rock, in un disco che si definisce atmosferico e che è, a ragione, un viaggio mentale verso le nostre rimozioni.

Wound è incentrato su giri melodici di tastiere, contesto dark ambient e organi. L’atmosfera è sacra, di una sacralità torbida e monolitica. Chiude un altro episodio dark ambient della durata di dieci minuti, Despondency, degno episodio di chiusura, anche se non brillante come i precedenti, se proprio si volesse cercare l’ago nel pagliaio.

Il viaggio è finito. La favola non insegna niente, l’happy ending non è previsto, poco importa. Non è l’intenzione di chi si accinge a mettere su questo disco. Siamo pronti a viaggiare ancora. Uno degli album più riusciti di quest’anno.

Label: Ant zen

Voto: 9,5