Pubblicato da Alessandro Violante il giugno 5, 2016
A volte capita di trovarsi di fronte ad album capaci di esprimere, con un numero non eccessivo di idee (se ben utilizzate) un’energia smisurata, come nel caso del nuovissimo album del musicista belga Le Moderniste, Desistere mortem timere (dal latino “cessa di temere la morte”), uscito per Hands Productions il 22 aprile. In soli tre anni, L. Delogne ha compiuto un percorso che lo ha portato a concretizzare un album che si distacca in maniera particolare dalla sua, seppur già molto buona, produzione precedente, compreso il suo lavoro del 2013, Too rough is never enough.
Concettualmente influenzato dall’universo di H.R. Giger e musicalmente dalla corrente del death industrial (in maniera particolare in questa sede, oltre che dal rhythmic industrial), Le Moderniste approccia qui la materia ritmico-industriale in maniera differente, creando un mix perfetto tra atmosfere catacombali, ritmiche ossessive, monocorde e cicliche, samples disturbanti e morbose quanto acri distese rumoristiche, non trattate per garantirne un migliore aspetto formale. Così come la frutta migliore è quella non sottoposta a trattamenti atti a migliorarne l’aspetto, Desistere mortem timere suona in modo particolarmente genuino e rough, ed assicura una esperienza appagante e stimolante.
Appassionati di rhythmic noise, non abbiate timore (neppure della morte): quest’ultimo lavoro del Belga, seppure fortemente influenzato da act death industrial come ad esempio MZ.412, è, indipendentemente da questo, uno tra i più originali esempi di rhythmic industrial degli ultimi tempi, una via di fuga da una strada senza uscita in cui è molto semplice ripetere se stessi, specialmente di fronte alla propria fanbase. Le Moderniste qui taglia dal passato e cuce nel presente, alla maniera del cut up dei mai troppo citati Burroughs e di Gysin, ritmiche durissime ed annichilenti, conferisce loro una maggiore pesantezza, dona loro un carattere mortifero e malevolo, ne abbassa le tonalità e le inserisce all’interno di panorami apocalittici in cui nulla, se non un cumulo di ossa risalenti chissà a quale epoca storica, vi trova posto. Non c’è più forma di vita in That may occur, un titolo ironico che “la prende con filosofia”, in cui si può udire un sound orrorifico e catacombale nel quale emerge, successivamente, come un morto redivivo, un ritmo in loop dai toni particolarmente oscuri e soffocanti che conosce pochissime variazioni sul tema, un tratto, quest’ultimo, tipico delle produzioni dei Sonar.
Un enorme, cacofonico, monolite ritmico dai tratti violentemente sgraziati e poco attenti al mantenimento del bon ton ci travolge con forza prorompente, come un caterpillar a cui i freni sono stati manomessi, in Tout n’est que néant, un episodio dal carattere fortemente industriale, rough fino al midollo e pregno di durezza postmoderna. Un martello pneumatico si muove impazzito sullo sfondo per la maggior parte della durata del brano e lascia poi spazio ad un momento di calma apparente, preludio all’episodio successivo. Gli segue un altro brano dalle impavide sembianze fortemente cacofoniche, in cui l’ennesima e sporchissima ritmica detta il tempo. Anche qui le pause atmosferiche da film horror d’essai non mancano. Una formula leggermente diversa è quella presente in Ritual I: Carnis, in cui una disturbata ed irriconoscibile voce si staglia su un muro cacofonico su cui, a sua volta, si inserisce una ritmica dai connotati morbosi. Anche in questa sede, l’album sembra essere stato registrato in un luogo dimenticato dall’uomo, situato ai confini del mondo, in cui solo i resti di una natura un tempo rigogliosa trovano spazio. In questo senso, il precedente Too Rough is never enough calza a pennello con la filosofia del Belga, mantenuta anche in questa sede, anche se esposta in modo diverso.
E’ comunque con la successiva La Beauté Naît Dans La Mort che le ritmiche rhythmic noise riemergono improvvise, dirette e prorompenti, pronte ad esplodere in un loop che soffoca il respiro, dal suono particolarmente sporco e rumoroso, poggiate su un landscape anch’esso crudo e dai contorni indefiniti, dopo una lunga introduzione che contribuisce a donare al brano un carattere “ambient” death industrial, in questo personale viaggio nei luoghi più reconditi dell’universo. Pietà e buone maniere: non pervenute. Solo un altrettanto oscuro passaggio / presagio al termine di un assalto senza precedenti. De meo interitu è uno dei più importanti highlights del lavoro: una ritmica marziale apre un brano che poi lascia spazio ad una ritmica power noise particolarmente efficace, sporca, malata e deviata, introdotta da una ferale distorsione da fine del mondo conosciuto. Una voce femminile il cui sample sembrerebbe di natura documentaristica dona ancor più atmosfera ad un brano fortemente surreale, e la sopracitata ritmica ammaliante continua ad annichilire fino al termine.
Le sorprese sono ben lungi dall’essere esaurite: Ritual II: Viscus è una esplosione di cacofonia power electronics in cui quanto fin qui abilmente costruito col contagocce si smembra, perde l’equilibrio e, frantumandosi al suolo, emette una forza noise straordinaria e confusionaria. E’ un big bang in cui il suono della metropoli industriale si erge forte e chiaro, sovrastando tutto ciò che incontra, riecheggiando i vagiti della prima generazione di musicisti industrial con una crudezza ed un’irruenza senza molti eguali. Sombre dessein non aggiunge molto a quanto detto, la formula è la medesima incontrata in precedenza: tappeto rumoristico e particolarmente rough su cui si erge un trascinante ed alienante ritmo spogliato di qualunque velleità. Puro e crudo, ma particolarmente effiface.
Con forza il rhythmic noise torna a ruggire in Filth cleanse the blind, in cui troviamo un ritmo duro e potente e le solite atmosfere oppressive. Ancora impietosi assalti power electronics e particolarmente ansiogene ritmiche di matrice power noise in Ritual III: Parabola, così come ruvidi e cacofonici ambienti noise in cui la deviata ritmica fa la parte del leone in Liber Diaboli, travolgenti e incontrollate correnti power electronics che devastano l’ambiente circostante in Pestis ed una illusione di redenzione nella conclusiva Ritual IV: Animus, il brano più “pacato” dell’album, in cui il flusso rumoristico brancola su uno sfondo caratterizzato da atmosfere particolarmente plumbee.
Con la medesima atmosfera con cui era cominciato, si conclude a malincuore un album la cui durata finita è il suo unico limite e il cui più grande pregio è l’idea che sta alla sua base. L’idea a cui Le Moderniste ha donato concretezza sui solchi di Desistere mortem timere, un lavoro che, sin dal titolo, ironizza sulla religione, facendo spesso riferimento all’idea della parabola e della misericordia da un lato e a quella della carne – portatrice sana di peccato – dall’altro. Idealmente l’album si conclude con l’anima che, dopo la morte, secondo akcune religioni, continua la sua esistenza. Che voi temiate la morte o meno, questo non è importante. L’importante è dare un ascolto attento a questo album.
Voto: 10
Label: Hands Productions