Pubblicato da Alessandro Violante il marzo 2, 2015
Non è affatto semplice definire l’indefinibile in musica, abituati come siamo a catalogare ogni realtà musicale in uno o in una serie di generi ben definiti, ognuno dei quali aventi dei veri e propri confini stilistici. Dovremmo tornare indietro di un paio di decadi per ripensare a come, nelle prime ondate di musica industriale, le realtà riuscissero a non rimanere praticamente mai ingabbiate nella recinzione che la musica moderna ha creato attorno a sè per facilitare il compito di chi deve parlare di questa vasta materia.
Esiste una definizione che qui ci viene in aiuto, quella di musica sperimentale, con la quale si identificano, appunto, gli esperimenti sonori / vocali fuori dagli schemi esistenti: quello che ne viene fuori è musica di ricerca, in cui sì, possono essere stabiliti dei legami con quanto scritto precedentemente in musica, ma che di fatto vivono al di fuori delle logiche del Panopticon dei generi. Non è un caso che dietro la creatura Konstruktivists ci siano due personalità musicali la cui formazione risale agli anni ’80, il che li rende appartenenti a quella generazione di artisti che ancora cercava spasmodicamente di costruire qualcosa di sempre diverso, slegato da quanto detto e fatto in precedenza e, quindi, sperimentale.
Le due personalità coinvolte sono Glenn Michael Wallis, già attivo in passato nella creatura altrettanto sperimentale Whitehouse e vicino ai Throbbing Gristle e Mahk Rumbae, noto per la sua partecipazione ai progetti Oppenheimer MKII e al recentissimo Ghost Actor, anche quest’ultimo un progetto piuttosto sui generis. Parliamo qui di un album di sette brani uscito pochi giorni fa per la Bleak, Destiny drive, un lavoro molto difficile da catalogare.
E’ bene specificare che l’attuale duo (che prima era una sorta di supergruppo), è attivo dal 1982 ed è considerato una delle formazioni più originali che la musica industrial abbia prodotto nella sua relativamente lunga storia. I due si concentrano qui sulla creazione di esperimenti sintetici di matrice retro i quali si reggono in qualche modo nel vuoto elettronico, quel substrato che esiste ma che nessuno vede, e che è appunto il medium, ovvero il prodotto della strumentazione elettronica utilizzata per creare i lavori. I suoni e la loro sperimentazione creano uno spazio immaginario in cui gli elementi in gioco, ovvero la voce principale, surreale nella sua condizione così come nel contenuto dei testi, le ritmiche talvolta più lente e cadenzate, talaltra più tribali-rituali, e le cascate di suoni attorcigliati e fusi, pesanti come il piombo, oscillano ed entrano in contatto tra loro.
Per fare un paragone con la materia artistica, questo concetto di spazio è ravvisabile in quello generato dal medium della telecamera a circuito chiuso che è, perlomeno inizialmente, alla base della videoarte, e che poi sarà “sostituita” dal bit. Così come nell’arte non è l’immagine a generare lo spazio ma è il medium stesso, così la strumentazione crea automaticamente lo spazio virtuale che l’ascoltatore dell’album percepisce come extrasensoriale, mentale, aleatorio ma sempre ben presente. Se proprio si volesse dare un nome alla musica prodotta, oltre che elettronica sperimentale, si potrebbe definire come pervasa da un profondo gusto minimalista e poetico, di una poesia surrealista e distopica, che oggi sta riscoprendo un revival importante e che trova nei Konstruktivists degli illustri progenitori.
I vocals sono ricchi di metafore e i suoni, destrutturati / overstrutturati sono i pilastri che, disposti secondo un certo ordine, costruiscono le ritmiche fluttuanti di cui sopra: una musica filosofico-rituale pervasa da una densa nebbia opprimente, in cui i tempi si dilatano costantemente e lasciano viaggiare il flusso sonoro. Quello che, in definitiva, i due riescono ad ottenere, è un senso di profonda angoscia e riflessione, uno stato quasi catatonico che mette in connessione la musica e le parole con la nostra mente e che ci appesantisce come un macigno invisibile. In questi landscapes vicini al concetto di vuoto cosmico-elettronico, la mente dell’ascoltatore è libera di fluttuare e di viaggiare.
Quel che viene fuori da Destiny drive è la volontà di creare un lavoro estremamente particolare e fuori dagli schemi, mentale e surreale nei suoni così come nei testi, che ci richiede una particolare attenzione, pena l’incomprensione del messaggio del duo, pena anche la perdizione nello spazio elettronico-artificiale. Quella dei due costruttivisti è, per l’appunto, una musica d’avanguardia, ricca di messaggi nascosti e sperimentale come lo era l‘omonima avanguardia artistica.
Label: Bleak
Voto: 9