kFactor – Ghastly monolith

Pubblicato da Alessandro Violante il luglio 30, 2015

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Che la si consideri una corrente legata ai primissimi anni ’90 e ora superata o una delle più interessanti declinazioni del verbo industriale, il cosiddetto genere electro-industrial, noto con questo appellativo in virtù delle forti dosi di musica elettronica e della complessità stilistico-ritmica dei brani, è un genere ancor vivo, che continua a produrre frutti eccellenti.

In tal senso, la Electro Aggression Records si è rivelata portatrice dei migliori risultati raggiunti nel genere negli ultimi anni. il Ghastly monolith del brasiliano kFactor fa parte della cosiddetta trilogia comprendente il suo nuovo lavoro, quello degli svedesi Astma e il nuovo album dei Serpents, che ha visto la luce circa un mese fa. La politica della EAR, piuttosto atipica nel panorama musicale, consiste nel rilasciare più album contemporaneamente, prendendosi il proprio tempo, cercando di ottenere il meglio dai propri artisti, con una particolare attenzione all’idea di tripletta (più di qualcuno ricorderà che questo si ripetè circa due anni fa, e ne parlammo abbondantemente).

Abbiamo imparato ad apprezzare il talento del musicista brasiliano quando, qualche anno fa, i suoi brani cominciarono ad essere caricati su Soundcloud e, se allora le sue influenze erano chiarissime (in prima battuta, l’electro di derivazione europea) e la sua personalità era ancora in via di definizione, oggi, con l’uscita del suo primo album in studio, possiamo tranquillamente affermare che quell’approccio personale al genere è ben presente e ben rintracciabile nel lavoro.

Prodotto da un nome ben noto nell’underground electro, soprattutto in quello dark electro, come Arnte del progetto Pyrroline, che diede alle stampe il suo ultimo lavoro proprio per EAR, la prima cosa che l’ascoltatore nota è l’estrema pulizia dei suoni, che fa da contraltare ai vocals di Junior, distorti e sporcati di strati noise, i quali si pongono, riuscendovi, lo scopo di disorientare l’ascoltatore, trasformando la musica del Brasiliano (dimenticate il carnevale di Rio), in un flusso elettronico proveniente direttamente dallo spazio più remoto. Solenne e ricercato, monolitico per l’appunto e rigido, freddo e parzialmente debitore degli anni ’80, ecco alcuni input per cercare di introdurre questo doppio, imponente, difficile, lavoro.

Come suggerisce molto bene il titolo dell’album, il debutto di kFactor si staglia nel cielo elettronico come uno spaventoso monolite, freddo e distante, un disco caratterizzato da un susseguirsi di ritmi lenti e marziali, che non poco hanno in comune con la parabola dei The Klinik e, in particolare, con quelli più astratti e metafisici, più fortemente elettronici degli anni ’90, anche quelli generalmente meno considerati, ma si respira anche, allo stesso tempo, quell’imponenza e marzialità tipica della prima produzione di Dive. Junior si dice particolarmente influenzato dalla scena belga facente capo ai nomi già citati ma anche ai Vomito Negro e ai Signal Aout 42, ma qui la musica è radicalmente diversa e, semmai, i legami con questi gruppi sono più sottili, risiedenti nell’utilizzo di tempi spesso lenti e pesanti come macigni.

Quel che invece lo distingue dalle sue influenze è che, mentre le suddette realtà sono molto più legate all’EBM e quindi ad un approccio fisico alla musica, kFactor si posiziona nella sua torre d’avorio ed elabora intricate trame i cui suoni sono molto più mentali, il tutto è molto più astratto e rarefatto, e questa è decisamente una prerogativa dell’electro industrial, piuttosto che dell’electronic body music. Astrazione quindi, e l’artificiosità tipica del genere, che molto spesso recupera un gusto elettronico per gli anni ’80, elemento, questo, che aggiunge ancor più astrazione a quanto ascoltato. Il monolite rappresenta la rappresentazione totemica della degenerazione dell’essere umano, della cattiveria e dell’egoismo, esso è quindi una esternalizzazione, un voler dare forma allo schifo che il musicista vede quotidianamente, e, come lui, lo vediamo tutti.

Musicalmente, per quanto riguarda il primo album, c’è un alternarsi di brani più quadrati e marziali, come l’opener Error, alternati a divertissement vicini a certe cose dei già citati Pyrroline, un esempio su tutti è Take a chance, di chiarissima matrice primi anni ’90. In Claustrophobia il beat è moderno e di derivazione techno e il giro melodico è più legato all’electro industrial storico, ma, sebbene tutti gli episodi siano di ottimo livello, kFactor dà il meglio di sè e manifesta al meglio il proprio trademark in brani lenti, marziali e slegati dal puro e semplice 4 / 4 come Disorient, mai titolo fu più azzeccato per descrivere il mood del brano. Sebbene i vocals siano spesso presenti, la musica del Brasiliano è molto spesso strumentale e condita di samples, un esempio di come il Brasiliano abbia in mente anche la scuola industriale canadese.

Nell’album c’è anche spazio per episodi decisamente più ballabili, balletti meccanici da proporre all’interno di selezioni particolarmente ricercate, come la già citata Take a chance o Iron tree, contrapposte agli episodi più mentali e filosofici come le evocative Symmetry e White monolith. In brani come You…worm! e Prototype è forte, invece, la sensazione di stare ascoltando quei brani electro che tutti avrebbero voluto comporre, ma che raramente gli artisti della scena sono riusciti ad eguagliare. Il primo disco si chiude con una certa sensazione di deja vu, di già parzialmente sentito nei Pyrroline, sarà per via della produzione o per l’indubbia influenza che l’uno ha esercitato nei confronti dell’altro.

Passando al secondo album, Old school prototype, almeno per quanto riguarda gli inediti, che sono ben nove, si ha la sensazione di ascoltare altri ottimi esempi di electro industrial dai toni apocalittici e mentali, conditi da atmosfere da fine del mondo, ma che comunque appaiono meno sperimentali rispetto alla maggior parte degli episodi presenti nel primo disco. Qui si trovano vecchi e nuovi brani di kFactor in cui l’influenza dei maestri del genere electro-industrial si fa più palese, comunque sempre mantenendo una qualità decisamente ben sopra le righe. il 4 / 4 più smaliziato fa da padrone in brani evocativi e prodotti ottimamente alla ricerca di quel trademark così personale presente nel primo album. E’ evidente come, rispetto al primo disco, siano presenti elementi e atmosfere decisamente più dark electro, soprattutto nei giri melodici di brani come No land e Faithful children, per citare due brani (ma questo potrebbe essere allargato a tutti i restanti brani).

Anche i remix, qui relativamente pochi, si dimostrano all’altezza della situazione, in particolare quelli più personali, come quello dei Tri-state per Prototype, che mette in evidenza la loro teatralità, grazie ad un suono recitato e alle female vocals operistiche che li contraddistinguono, mentre You…worm! riletta dagli svedesi Astma è più diretta dell’originale, più fortemente electronic body music. Molto duro, di impronta old school, il remix di A blind spot da parte di Soillodge, che gli dona quella fisicità che l’originale volutamente non presenta, e ottime prove sono anche quelle dei Serpents e degli statunitensi Jihad, che rileggono A dead place con un mood più leggero ed anni ’80, molto attento alla melodia pianistica.

In definitiva, quello che emerge dall’album di debutto di kFactor è un approccio piuttosto personale alla materia electro-industriale il cui valore aggiunto, ma questo vale per tutti i prodotti della EAR, è il modo in cui, soprattutto tramite i remix, la label cerchi costantemente, spesso riuscendoci, di unire vecchi e nuovi act all’interno di un luogo comune, cercando di ricreare una vera e propria scena che, dopo la crisi del genere, ha cominciato a perdere pezzi fino ad oggi, fino a quando un gruppo di appassionati ha deciso di riprendere le fila del discorso lì dove si erano interrotte. Nel frattempo il sogno continua, e noi lo seguiamo con grande interesse.

Voto: 8, 5

Label: Electro aggression records