Pubblicato da Alessandro Violante il aprile 30, 2013
Quella del viaggio è stata una tematica largamente attraversata dalla cinematografia, dalla narrativa, anche dalla musica. Oltre il Beat, che nel XX secolo si è prestato ad essere una delle manifestazioni più interessanti di questo concetto, oltre Dennis Hopper, William Burroughs, Jack Kerouac, semplicemente oltre, c’è solo il viaggio mentale, quello nato sul finire degli anni ’80, precisamente nel 1988, l’anno della Summer of love che lanciò come schegge impazzite la dance che oggi viene chiamata a posteriori EDM. E così il viaggio musicale è quello fisico delle subculture che si esprimono attraverso i rave parties così come quello indotto dalle sostanze stupefacenti che sono ad essi collegati, e, più che alle feste in sè, concettualmente alla subcultura stessa. Uno dei frutti meno famosi di questo fiore è stato ed è tuttora quello della goa o psy-trance rimasto ancora saldamente ancorato alla sfera del rave e che raramente ha fatto il suo ingresso ufficiale in discoteca, rimanendo uno stile di nicchia. Tra i suoi iniziatori Ben Watkins è forse il Maestro inglese, colui che meglio di moltissimi altri ha saputo captare la lezione dei Padri Indiani e che qui torna a quelle terre, torna a quel suono caratteristico del Grande Est rileggendo la formula con la mente del 2013, una mente che rielabora continuamente il viaggio e che non conosce periodi di stop. Non contando le ultime raccolte, l’ultimo lavoro del producer inglese risale al 2008 e l’attesa per il suo ritorno è stata molto forte, una attesa molto ben ripagata considerando la portata di un lavoro che dentro di sè ha tutto quello che serve per consacrare un lavoro alla storia, e se questo significa attendere 5 anni, allora va più che bene. La celebrazione del sole dorato del Grande Est è un viaggio verso il mondo dell’India e della Cina, verso un altro mondo così diverso dal nostro ma così fortemente ispiratore di tutto quello che è venuto dopo il boom (se è possibile definirlo in questi termini) del genere. L’opener Final frontier è la prima, lunga gemma che, suono dopo suono, tassello dopo tassello, costruisce sè stessa in un ritmo avvolgente, dolce e così rappresentativo di una cultura troppo spesso dimenticata, e così via lungo il dipanarsi dei suoi 10 minuti, non a caso è il primo singolo estratto. Invisibile esprime anche di più ma in modo più conciso e più diretto utilizzando più duramente effetti e sintetizzatori e costruendo il tutto su un arpeggio di chitarra tipicamente orientale. La successiva Guillotine è uno dei brani più ispirati che abbandona i fronzoli dei due precedenti e che punta direttamente al sodo, ovvero la psy-trance old school in cui la chitarra classica si elettrifica e rimanda a quello stile che tanto ha influenzato artisti come Bryan Erickson (Velvet acid christ, Toxic coma) e molti altri. Trans siberian e Shine rallentano i ritmi e si lanciano ancor più profondamente nelle atmosfere sognanti e leggere che rievocano viaggi trans-siberiani verso terre lontanissime laddove il Grande Sole và a splendere. Tempest esibisce un breakbeat controllato, sempre caratterizzato dall’utilizzo del guanto di velluto di Watkins che inasprisce i ritmi e ritorna alle influenze di Guillotine. Zombie trasuda energia sempre più dark, focalizzando l’attenzione sul lato spirituale piuttosto che su quello fisico perchè qui quel che conta è l’emozione e la sensazione di un mondo lontano. To byculla e la conclusiva Playing with fire rallentano di nuovo i ritmi e concludono i bellezza un vero capolavoro ricco di atmosfera, di voci, di suoni, di melodie chitarristiche e di beat che non sembrano parte di questo mondo, di questa cultura, tanto che questo non sembra un lavoro europeo, tanto la cultura orientale è presente in modo chiaro e netto. Si tratta in definitiva di uno dei migliori album di Juno reactor e della Goa moderna.