Hapax – Stream of consciousness

Pubblicato da Davide Pappalardo il gennaio 7, 2015

hapax-stream-of-consciousnessLa Swiss dark nights si sta confermando un’etichetta sempre più attenta al panorama oscuro italico e pare particolarmente interessata al fermento partenopeo che sta dando i natali ad alcune interessanti realtà tra le quali gli Ash code, già da noi recensiti e usciti sempre per la label elvetica; Napoli mostra dunque anche qui con Hapax il suo lato più malinconico e dark offrendo un prodotto moderno e con una propria identità il quale, però, conserva tutta una serie di chiari rimandi al suono anni ottanta che è stato, ma che ormai da anni è tornato prepotentemente alla ribalta in ambito alternativo e non solo influenzando i suoni sintetici di molti portavoci del “verbo oscuro“.

Il progetto è composto da un duo, Michele Mozzillo (vocals, testi, basso, synth) e Dye Ki Nlooln (chitarra, programming, synth, artwork), dedito, come anticipato, ad un suono ricco di suggestioni sintetiche ma anche di melodie eteree ed evocative legate alla strumentazione a corda, creando un ponte tra la synth wave e il post punk / coldwave che dir si voglia, non in maniera dissimile dai già citati conterranei ma approdando alle proprie conclusioni e soluzioni sonore che donano ai nostri una precisa identità anche al cospetto del panorama internazionale; Stream of consciousness è, infatti, un debutto che suona già professionale e dalle idee e dalla struttura ben chiara, allo stesso tempo sicuramente familiare per gli amanti di certi suoni ma mai derivativo o privo di reale sostanza, anche grazie ad un songwriting curato che discerne la semplicità (arma qui usata con maestria) dalla banalità, per fortuna quest’ultima evitata con efficacia.

Untitled heart apre il viaggio con le sue tastiere oniriche dal grande effetto le quali presto lasciano spazio ai giri di chitarra e basso, rimanendo però in sottofondo come un motivo che rimane in testa dopo esser stato udito; parte poi la parte vocale ad opera di Mozzillo, dai toni baritonali inconfondibilmente gotici che richiamano Ian Curtis, perfetti nella loro resa drammatica che si lega con il substrato sonoro in un incedere tanto delicato quanto incalzante che ripropone il meglio dello stile affrontato dai nostri mostrando anche un certo gusto per il ritornello e per l’hook posizionato al momento giusto.

When the marble falls ci accoglie con suoni elettronici minimali sui quali presto si stagliano linee di synth sognanti ed ariose; compare naturalmente la voce del cantante riconfermando la somiglianza con lo stile del compianto leader dei Joy division così come compaiono i suoni notturni di chitarra che chiamano in causa Bauhaus e The Cure in una perfetta unione tra pulsioni sintetiche e malinconia analogica, la quale ci dona una struggente opera da “danza lenta” per anime introverse in cui si conferma il gusto minimale, ma dal grande effetto emotivo, dei nostri.

Exit ha un delicato inizio dall’animo ambient caratterizzato da tocchi leggeri di chitarra ed effetti evocativi di synth; parte poi la batteria elettronica cadenzata accompagnata dai giri struggenti dello strumento a corda e dai campionamenti di archi. La voce baritonale ed effettata nel suo tono tra il freddo e l’emozionale si delinea tra le onde sonore create dai nostri in un movimento che punta, anche in questo caso, al cuore e non può lasciare indifferenti grazie ad un gusto per la melodia semplice ma che rimane ancorata nell’animo per non andarsene più via.

Time riporta in campo ritmi elettronici più pulsanti e incalzanti legati in un gioco di fusioni ben orchestrato alle suggestioni darkwave care ai nostri in uno stile accumunabile ai Frozen autumn, ma che si distingue per una minore decadenza e per la voce sempre drammatica e presente di Mozzillo; quello che in mani meno esperte può riuscire come forzato o solo di stile, qui, invece, funziona pienamente grazie alla convinzione e alla naturalezza con le quali il tutto è eseguito, facendo percepire un pezzo che è nato così e che non poteva e non doveva essere diverso.

Like Sand presenta suoni di tastiera ad organo sui quali si distribuiscono i beat di batteria elettronica, accompagnati poi da chitarre spettrali dalle bellissime melodie ed arpeggi e dalla voce qui più sommessa e malinconica del nostro; ma il pezzo forte arriva con l’esplosione di tastiere solenni in crescendo, le quali completano il ritornello dal forte impatto emotivo e regalano uno dei momenti più epici di tutto il lavoro. Fraseggi di chitarra e melodie sintetiche trovano, dunque, spazio in un altro brano che non teme di reinterpretare i propri riferimenti con rispetto, ma anche convinzione nei propri mezzi.

Giordano Bruno porta in campo incalzanti bassline più dance ma dal gusto sempre raffinato che, pur richiamando alcune tendenze electro-goth,si guarda bene dal cadere nei suoi aspetti più grossolani o di cattivo gusto; i nostri qui sperimentano con la propria formula dimostrando di non aver paura a giocare con quest’ultima, senza però snaturarla del tutto e senza, soprattutto, perdere coerenza con il resto della scaletta proposta. Anche le vocals sono più melliflue e liquide in un’atmosfera allucinata ricca di effetti, caratterizzata da ritmiche più serrate e marziali e da chitarre più grevi, nella quale le linee sintetiche si fanno più notturne ed evocative completando con perizia il quadro sonoro a tinte oscure qui creato, che nel finale assume toni dark ambient prima di chiudersi come un sogno (o incubo) improvviso.

La tendenza più ambient prima evidenziata trova pieno compimento nell’altrettanto allucinata e onirica Listen che serpeggia nelle sue ritmiche lente e cadenzate e nella voce sospirata del cantante facendo da sfondo per i fraseggi di chitarra spettrali; si viene a creare un’atmosfera dalla tensione palpabile ma controllata, che viene continuamente tesa tra i vari elementi in uno scenario tetro che scolpisce in musica immagini notturne ed ossessive; le sorprese non sono però finite e al terzo minuto e ventotto, finalmente, l’energia si libera in un’epica esplosione di chitarra e voce dai connotati vicini al post rock e dagli andamenti marziali ricchi di pathos, evolvendo, poi, verso il finale aggiungendo sempre più elementi noise ed industrial che nell’ultimo minuto tornano alla forma del dark ambient in una chiusura del cerchio che, tra l’altro, sancisce perfettamente anche il finale del disco.

In un’epoca in cui forse non c’è più nulla da inventare e in cui la vera abilità sta nel reinterpretare quanto è stato fatto senza essere cloni ridondanti, gli Hapax dimostrano di avere tutte le carte in regola per distinguersi in ambito internazionale grazie a poche ma efficaci regole: autocoscienza del proprio suono che da una parte porta ad abbracciare senza remore o vergogna i propri riferimenti traendone il meglio e, dall’altra, permette un certo grado di sperimentazione che arricchisce la tavolozza sonora applicata, un songwriting sobrio ed evocativo che sa come giocare con il filo della tensione senza strafare o fare meno del dovuto, una resa sonora cristallina e legata ad un’interpretazione strumentale e vocale convinta che non spezza mai la mistica del gruppo. Più che promossi e, anzi, gradita sorpresa che speriamo (ma ne siamo convinti) possa avere sempre più seguito in futuro sviluppando quello che già in partenza è un ottimo suono.

Label: Swiss dark nights

Voto: 8, 5