Pubblicato da Alessandro Violante il febbraio 20, 2014
Ci sono artisti da cui non è lecito aspettarsi cose ben precise, non perchè queste vengano tradite ma perchè sono capaci di provocare uno stupore sempre nuovo, che nasce dalle viscere di quegli artisti che vivono la loro creatività in maniera estremamente libera, seguendo sempre la propria strada, ed è questo che, indipendentemente dall’opinione riguardo al lavoro in oggetto, rende tutto migliore, più genuino. Abbiamo già parlato in passato di Michael Morton alias Displacer, abbiamo già detto di lui che è una di quelle personalità che riesce a creare sempre dischi di ottima qualità mantenendo alto lo standard e variando sempre il suo stile sulla base del suo mood personale. Lo avevamo già capito con l’e.p. precedente, Masterless, che le cose sarebbero cambiate ancora una volta. In questa sede, in compagnia di Nimon, musicista noto per aver prodotto per Ant zen, di cui la Hymen records per cui Displacer produce è una sub label, il musicista abbandona le dure (ma sempre tecnicamente ineccepibili) cavalcate breakbeat di Curse of the black lotus e ci consegna dieci episodi fortemente inscrivibili nell’elettronica ambientale, sempre segnata da un gusto sopraffino per beat dalle sonorità mai troppo invadenti ma usate in modo giusto, con una estetica quasi settantiana, vicina a quel rock così ispiratore per tutto quello che ne sarebbe scaturito. Un disco complesso ma non troppo, lungo ma non troppo, in cui i brani sono sì discernibili, ma in cui a volte sembra meglio vivere l’esperienza di un viaggio in luoghi ricolmi di fantasmi e poesia, canadesi, così ben rappresentati dalla fosca copertina che lascia intendere sonorità legate al mondo della natura e dell’ambiente esterno. Un lavoro che, ancora una volta, spiazza l’ascoltatore, che sarà gradito dagli estimatori dell’elettronica di qualità e che magari passerà inosservato tra i puristi dei ritmi spezzati e della ricerca della durezza a tutti i costi. Morton non ha necessariamente bisogno di tirare sull’acceleratore, sua è la padronanza dei suoni elettronici, sua è una rara maestria e un raro gusto nel songwriting. Sarebbe interessante sapere quanto del lavoro dell’uno sia stato preponderante rispetto a quello dell’altro e in quali precise quantità, ma l’immaginazione è un’altro fattore che, unitamente agli altri, dà luogo alla perfetta alchimia. Certamente brani come The devil house o Sons of Horus mostrano un mood più oscuro e pressante, che tuttavia viene continuamente esposto all’aria aperta e al vento dell’ambient esterna, e così quest’aria fresca confonde il beat e lo lascia fluire secondo lo scorrere della natura. In definitiva si tratta di un lavoro molto spontaneo e allo stesso tempo molto complesso, poichè l’IDM è sempre ben presente. L’intelligenza sta nel non farlo diventare il motore dei brani, e alla base di ciò si trova l’intelligenza di chi sa creare ritmiche su vari livelli, lasciando respirare i brani invece di opprimerli continuamente con ritmi totalmente astratti, dove una struttura fatica a prendere forma. Un lavoro di gran classe, non facile, da considerarsi una sfida aperta a chi vuole cimentarsi in un’esperienza differente.
Label: Hymen records
Voto: 8,5