Pubblicato da Alessandro Violante il marzo 13, 2015
Il ritorno del romano Ben noto trombettista postindustriale noto ai più come Dbpit non può non essere un appuntamento importante con la sperimentazione italiana. Personaggio sempre attivo, in coppia con la compagna Xxena o meno, nel mondo della musica industriale italiana (ma molto apprezzato anche all’estero), è continuamente alla ricerca di nuove strade espressive, come dimostrato anche da questo suo nuovo lavoro, Dark lights, una sorta di ossimoro che, già dalla cover artwork, si presenta come un lavoro caratterizzato da una piuttosto forte componente concettuale.
Non c’è neanche il tempo di metabolizzare un progetto ongoing come Lympha obscura, del quale abbiamo già parlato qui, che ci ritroviamo ad esplorare sette frantic cityscapes dalle tinte noir e, appunto, sperimentali. Questi agitati, irrequieti, convulsi spazi urbani riflettono lo strettissimo legame intercorrente tra il lavoro del nostro e le derivazioni più oscure e più, se vogliamo, retro, del panorama artistico-musicale postindustriale. Si sente un certo legame tra l’elegia di Dbpit alla città e quella di un regista come Walter Ruttmann che, nel 1927, realizzava un film genericamente considerato espressionista, il suo Berlino: Sinfonia di una grande città. Anche la cover artwork ha più di qualcosa in comune con l’attività delle avanguardie.
Muovendoci su coordinate più recenti e saltando qualche decennio di ricerca e sperimentazione, è innegabile che i primi vagiti della musica industriale abbiano cercato l’espressione in musica (e, prima, nell’arte) del panorama urbano e del grigiore delle città industriali. Seppure nella sua costante ricerca sperimentale, da artista eclettico e polimorfico qual è, a differenza di altri suoi colleghi, Dbpit tiene ben saldo il filo rosso che lo lega a quelle primordiali espressioni atonali e, in questa sede, chiama a raccolta tre artisti, tre ospiti, per dare ancora una volta voce alla città, e quale città meglio rappresenta, tra le sue mille luci e ombre, il contesto descritto se non Roma? La Capitale è la città dei monumenti e delle frotte di turisti ma è anche la città delle distese periferiche che al calar del sole diventano territori spettrali. Luci e ombre, tensione e distensione, è questo rapporto che anima l’opener Bekytanz zwei. Roma come Berlino: questi sette frammenti potrebbero suscitare le stesse emozioni più o meno negli abitanti di tutte le città che vivono questo contrasto.
Quello del musicista è un ritorno all’essenziale: bianco e nero (con le opportune sfumature) sono l’espressione del neominimalismo che stiamo vivendo in certa musica industriale odierna per così dire di recupero. Si parlava della opener, un brano che, tramite la sua ritmica quadrata, ben esprime il viaggio sulla rotaia, una rotaia, perchè no, che ritroviamo nei Kraftwerk ma anche nel primo Lars von trier, quello di Europa. Quel che cambia è il mood, minimalista e ossessivo, dannatamente ansiogeno in cui la genialità è situata nello stacco, in quel silenzio che, come ci insegna John Cage, è anch’esso musica. Quello stacco, quel gusto per l’improvvisazione, fa pian piano riemergere la melma postindustriale che ci rituffa nell’abisso della condizione dell’uomo postmoderno.
Uno degli episodi più inclassificabili e audaci del lavoro è la successiva Dead letter box, questa insieme al francese Ullapul, un infinito, un vuoto cosmico elettronico fortemente oscuro in cui si muovono angosciosi i ricami del sintetizzatore e l’ossessivo minimalismo a sorreggere l’impalcatura indefinita. Il trombettista qui si lancia in sperimentazione astratta. I vari elementi, nel loro insieme, puntano dritti all’irrequietezza della succitata condizione. A seguire, Children at play, questa con Xxena (così come l’opener) presenta una ritmica minimalista e ossessiva sulla quale si innestano richiami altrettanto ossessivi e ambientali, come in una galleria senza fine in cui gli orrori sono psicologici più che fisici. Quintessenza dell’alienazione.
Squadra che vince non si cambia nell’emblematica No way out, quasi una dichiarazione d’intenti dal sapore dark ambient, profonda e melliflua, anche questa decisamente intrisa di rimandi cinematografici alla cinematografia dell’orrore più psicologico. La successiva Loud and clear allenta le tensioni per presentarci un paesaggio decadente e freddo, debitore della prima scuola elettronica tedesca (non a caso abbiamo citato i Maestri di Dusseldorf), una sorta di pegno molto ben riuscito che evidenzia l’esperienza e la padronanza del multiforme songwriting del musicista romano (e dei suoi collaboratori). Questo è il posto giusto per inserire degli inserti di tromba decadenti e mittleeuropei. E’ anche uno dei brani più groovy e da viaggio.
Con Rattenfanger, quest’ultima in collaborazione con Ullapul, la ritmica viene presa di petto e abbandonata in favore di un nuovo vuoto elettronico in cui la tromba improvvisa impazzita alla maniera dei compositori degli anni ’60, ’70 e ovviamente precedenti. Si rimane legati alla realtà da un sottile appiglio fatto di suoni acidi e quasi evanescenti. Il trombettista disegna uno scenario postapocalittico in cui si canta della decadenza della città, delle sue luci e delle sue ombre. La musica si muove come nei lavori videoartistici di David Larcher, in questo vuoto elettronico che provoca nell’ascoltatore una notevole sensazione di straniamento brechtiano. Si conclude, ancora una volta, con una collaborazione con Xxena e, stavolta, con Fabio Magnasciutti all’armonica, già notevole illustratore. Si tratta di un’altro episodio desolato e angoscioso che riesce molto bene ad esprimere il senso di vuoto interno caratteristico dell’individuo postmoderno, sempre alla ricerca di sè stesso negli infiniti viali desolati delle città metropolitane.
Una lucida e fredda disamina della condizione della città che altro non è che, per relazione diretta, quella dell’individuo che vi vive i suoi giorni. Forse non tutti, forse chi non vive queste realtà non potrà comprendere il grande senso di frustrazione e alienazione insita in queste città, ma Dark lights è un ottimo esempio di come ancora oggi (e, a maggior ragione, nella nostra penisola) sia possibile analizzare estrosi prodotti di grande qualità e forte, sentito, messaggio. La sperimentazione della prima musica industriale continua a vivere anche e soprattutto sui solchi di questo lavoro.
Label: Dhatūrā records
Voto: 9