Pubblicato da Alessandro Violante il maggio 16, 2013
Siamo umani, dopotutto. Questo statement racchiudeva in sè quello che sarebbe successo otto anni dopo, ma d’altronde allora nessuno li prese veramente sul serio, e invece è successo: i robot parigini noti come Daft Punk sono diventati esseri umani, sono tornati dal loro pianeta Interstella 5555 e hanno realizzato che, tutto sommato, l’elettronica può venire umanizzata attraverso ritmi caldi ed estremamente catchy, figli di un tempo e di un suono perduto che si pone lì dove tutto è cominciato, nella disco music, quella più ruffiana e per tutti. Questo processo viene espresso in modo particolarmente chiaro attraverso la storia degli incipit dei loro dischi: laddove Homework, figlio di una estetica anni ’90, manifestava sperimentazione, i primi secondi di One more time (Discovery, 2001) lanciavano il sound french touch verso le classifiche mondiali della musica house, quella più raffinata, catchy e anche, come si suol dire oggi per identificare un certo tipo di musica EDM ovvero Electronic Dance Music, che fa tanto figo. Human after all, 2005, partiva con dei rintocchi di drum machine, il che, applicato al titolo dell’album, presentava una denuncia, una accettazione e una riflessione sull’ibridazione delle forme fisiche del rock e elettroniche, un tema caro a molti, moltissimi, ma che rappresentava, musicalmente, una chiara dichiarazione d’intenti. Inutile parlare delle O.S.T. e del resto, che alla fin fine conta poco. Ora prendete questi tre lavori e metteteli da parte perchè la creatura Daft Punk oggi è qualcosa di nuovo, completamente diverso, che taglia nettamente i ponti con il passato e che fa tabula rasa di tutto quello che Fu il french touch, da loro stessi creato, evoluto e concluso. Cosa è accaduto in questi 8 anni? Tutto e niente. Raccolte, un disco live, Alive, dieci anni dopo lo storico Alive 1997, la firma per la colonna sonora di Tron, a sua volta rifacimento dell’omonimo originale del 1982, molto meno sperimentale del primo ma molto più figo, e poi un suo remix, una sua ricostruzione. Queste release vogliono dire tutto e niente perchè qualcosa di tangibile è stentato ad arrivare. Quel qualcosa è stato anticipato da una grandissima campagna mediatica, di fronte alla quale Trent Reznor potrebbe addirittura impallidire, che ha costruito dibattiti e titoli di Disco dell’anno a qualcosa che non aveva ancora una sua natura, del quale nessuno aveva alcuna idea. Questo hype, questa strategia, si è espressa in maniera completamente differente rispetto ai loro lavori passati in quanto mossa da scopi differenti. I Fu Daft Punk erano caratterizzati da un grande rifiuto della ricerca della forma popolare e in generale hanno sempre dato l’impressione di vivere su quel loro pianeta che gli ha dato tanto successo. I loro concerti, le loro interviste, la loro presentazione dietro delle maschere, le stesse copertine degli album (sempre incentrate semplicemente sul loro logo) hanno alimentato nei fan un modo di vedere questa realtà così amena dal mondo elettronico e dalle sue tendenze, una realtà allo stesso tempo così vicina e così lontana dagli sviluppi della musica. Questo è, in breve, il Fu.
Qualche giorno fa (ho perso il conto, sembra ormai di conoscere l’album da una vita) è uscita la notizia che il disco è stato pubblicato gratuitamente per qualche giorno, poichè la data di uscita è il 21 maggio del mese corrente, e lì molti di noi, fan del duo, hanno schiacciato play. Per quanto il singolo Get lucky, con la partecipazione di Pharrell, abbia proposto un suono molto diverso dal solito, molto disco, legato a una personalità come Giorgio Moroder, ma non solo, credo che non tutti si aspettassero che Give life back to music fosse, ancor prima che musicalmente, la soluzione dell’enigma della sfinge di Human after all, perchè il passaggio dall’album precedente a quello attuale è ancor più estremizzato di quello intercorso, non a caso, nei francesi Justice da Cross a Audio video disco. Il fine ultimo di questo disco è quello di riportare la musica elettronica alla vita, a quella indubbia fisicità che ancora viveva all’interno dell’epoca della disco, in quel periodo di transizione verso tutto quello che verrà in seguito. L’opener, così spiazzante, dopo un brevissimo motivo, quasi come se fosse una colonna sonora, lascia il posto ad un sound completamente inesplorato dal duo e completamente differente da tutto quello che è stato composto da loro fino a quel momento. Gli elementi principali che accompagneranno i tredici brani e che trovano nell’opener una delle loro summae sono un impianto disco, una voce vocoderizzata (ma completamente diversa rispetto al passato) e, in generale, un suono soft e dolce, che più volte strizza l’0cchio al mainstream e che smussa via tutte le asperità che possono essere di difficile comprensione per garantire all’ascoltatore esteticamente la migliore frutta possibile. Andando avanti con i brani ci si rende ben presto conto che questo album, che taglia i ponti con la musica elettronica, è basato, per la sua maggior parte, sugli ospiti che lo abitano, ospiti di grandissimo rilievo nel panorama della musica moderna (e non). Cosa dire al proposito della partecipazione di Nile Rodgers degli Chic, storica formazione disco, o del Maestro del genere Giorgio Moroder, nonchè di Julian Casablancas dei The strokes, del sopra citato Pharrell Williams, di Todd Edwards, di Panda Bear (degli Animal collective) e di Dj Falcon? Un cast d’eccezzione per un film d’eccezzione. Nell’idea del duo c’è il recupero di certe sonorità come antidoto all’imperante dominio delle macchine elettroniche, che però costituiscono il pro (e il contro, per alcuni?) di questa musica. E quindi, andando avanti nell’ascolto, dopo la ballad The game of love, arriva il tanto atteso brano Giorgio by Moroder, dove, in un monologo, il Maestro della disco afferma che il sintetizzatore rappresentò, sul finire degli anni ’60 e sul principio dei ’70, la quintessenza del sound del futuro, quale poi si è rivelato, lasciando poi spazio ad un divertissement della vecchia scuola che incorpora un pò tutto, dalla vecchia elettronica all’utilizzo di strumenti fisici, quasi a voler operare una cannibalizzazione dei primi Kraftwerk riletti attraverso una ottica mainstream, mediata dalla disco, il comun denominatore di questo lavoro, cesellando un brano senz’altro interessante ma che non fa gridare al miracolo e che soprattutto ha poco o nulla dei Daft Punk, è piuttosto un brano di Moroder. Al contrario brani come Within e Instant crash, quest’ultima con alla voce Julian Casablancas, sono dei brani pop di qualità, ma non di musica elettronica, che avrebbero potuto essere composti da un qualunque ottimo musicista pop. Lose yourself to dance è invece un inno per le classifiche di musica colta e allo stesso tempo scanzonata, guidata da Pharrell, musicista che gode oggi di un grandissimo successo (e che ora, alla luce di questo disco, lo incrementerà moltissimo). Touch, con Paul Williams, fa leva sulla figura cinematografica dell’ospite per consegnare un brano fortemente teatrale, figlio del palcoscenico, che dopo una introduzione sperimentale ma non troppo sfocia nella classica disco che sta alla base di quasi tutti i brani del lavoro. Segue quindi Get lucky il primo singolo, che ripresenta Pharrell Williams alla voce, convocato qui allo scopo di sfidare i dancefloor più fighi, e che sta riuscendo magistralmente nello scopo, insistendo, in questa studio version, sulla ripetizione ossessiva, al limite delle peggiori pubblicità statunitensi, sul ritornello, maledettamente melodico e catchy. Beyond non aggiunge molto ad una formula già espressa in molti altri brani, se non fosse per la reprise dell’introduzione cinematografica, stavolta figlia diretta delle presentazioni Metro Goldwin Mayer. Motherboard è uno dei pochissimi episodi, stavolta trattasi di una strumentale, che rimanda in parte ad alcuni brani molto melodici prodotti dal duo nell’epoca Discovery / Human after all, ma che suona, volente o nolente, più stanco, un intermezzo che lascia poi posto ai brani conclusivi, di ben altra portata, quali Fragments of time, con Todd Edwards, un brano estremamente pop e catchy così come la successiva Doin’ it right con Panda Bear. La conclusione viene invece affidata ad una delle collaborazioni più importanti e di natura più elettronica, ovvero quella di Dj Falcon per Contact, che suona come una coda che recupera ritmi antichi, ma sempre in una nuovissima ottica melodica e catchy, per sfociare poi in un suono che si alza verso un luogo imprecisato.
Sebbene occorrano molti ascolti per comprendere un disco come questo, si possono fare due considerazioni. La prima è che, come disco dei Daft Punk, questo lavoro sia completamente distruttivo di tutto quello che in passato i Nostri sono stati, e pertanto meriterebbe una bocciatura secca, la seconda è che, se non fosse un loro disco, sarebbe un prodotto piuttosto interessante. Una via di mezzo avrebbe potuto essere un side project, ma non si può avere tutto dalla vita, per cui verranno date due votazioni differenti.
Label: Columbia records
Voto Daft Punk: 2/10
Voto Disco 7,5/10