Pubblicato da Alessandro Violante il novembre 2, 2014
Che dire di William Bennett alias Whitehouse che non sia stato già detto? E’ l’inventore del genere noto come power electronics e, più in generale, una delle figure più importanti di tutta la scena industriale. Ne è passata di acqua sotto i ponti dal 1980 e il musicista inglese ha fatto dell’oltranzismo la chiave di gran parte della sua carriera artistica.
Nelle ultime releases aveva già cominciato a manifestare un certo interesse per le sonorità percussive tribali, così ha lanciato un progetto piuttosto ambizioso, Cut hands, aiutato, nella realizzazione degli artwork, dall’enigmatica Mimsy DeBlois. Con questo progetto ha ampiamente manifestato la sua capacità, caratteristica dei padri del genere, di mutare pelle sperimentando in varie direzioni senza sentirsi ingabbiato in un determinato suono.
Il Bennett che troviamo in Festival of the dead, secondo full length dopo Black mamba del 2012 e quattro E.P. chiamati emblematicamente Afro noise, come dice il suggestivo nome, ha brevettato una nuova ramificazione della musica rumoristica, della quale, a sua volta, viene a ragione considerato uno tra i suoi maggiori esponenti. Le ritmiche africane spiattellate nelle orecchie con l’ingordigia di chi vuole sorprendere annichilendo hanno non poco in comune con la missione industriale, in modo diverso dai suoi successori.
Costruzioni ritmiche minimalistiche, secche e ben congegnate come nella massiccia opener The claw si alternano ad episodi sporcati da atmosfere pure e crude, lontane da qualsiasi influsso electro. Si prosegue con un episodio tirato e variegato come il già rilasciato Damballah 58, che presenta un inaspettato colpo di coda caratterizzato da un cambio di ritmica. Uno degli episodi meno martellanti ma più deviati e devianti, sporcato da suoni di ogni genere e pervaso da una particolare atmosfera sinistra è Parataxic distortion. Belladonna theme è un episodio affatto martellante ma ricco di pathos sinistro, colonna sonora di un film documentario su una attrice porno di nome Belladonna, appunto. Inlightenment e None of your bones are broken sono due episodi particolari seppure diversi. Il primo si apre uno spiraglio nella ritmica, questa volta rituale e dal sapore onirico, quasi una antica danza, mentre la seconda si poggia su strumenti a corda che costruiscono una trama claustrofobica e serrata. Anche Fruit is rape è costruita intorno ad un ritmo meno dirompente ma non meno rituale. Anche qui possiamo immaginare uno strano rito, anche qui una colonna sonora, mai però utilizzata. Gli altri episodi, tra cui la chiusura affidata a Fire ends the day, che si appoggia su un ritmo serrato in una scatola a forma di mid-tempo, trovano tutta la loro forza nelle ritmiche africane, come in uno scheletro senza carne alcuna.
L’evidente primordialità del suono di Bennett è una dimostrazione di come, apparentemente con pochi suoni, sia possibile creare un lavoro mastodontico, dirompente, variegato ed interessante. Il vero motore del progetto risiede tutto nella ritmica, potenziale autonoma protagonista di più di trent’anni di storia di questa entusiasmante musica.
Label: Blackest ever black
Voto: 9