Pubblicato da Alessandro Violante il giugno 9, 2014
In principio era la critica dell’informazione, la narrazione in musica e parole delle distopie di fine millennio, lucide analisi di un mondo alle soglie del cambiamento e, per alcuni, della sua fine prematura. Il primo, ruvido e indiscriminato suono industriale conobbe, nei primi anni ’80, le contaminazioni con il suono elettronico e sintetizzato, e da lì nacquero esperimenti etichettati come electro industrial. Adrian e Derek Smith sono i mastermind di uno dei progetti più importanti di quegli anni e più legati alla sfera del culto, i Click click.
Sarà stato il fatto di non essersi trovati al posto giusto nel momento giusto (una realtà inglese in un’epoca in cui Canada, Belgio e Germania rappresentavano il futuro di questa musica, sarà stato il loro suono, così atipico e fortemente legato agli anni ’80 e anche a certa new wave, sarà stata la loro scarsa prolificità. Questo non ha importanza, perchè siamo di fronte ad un lavoro che non vuole riscrivere la musica industriale ma che vuole testimoniare quello che comunemente veniva inteso allora come musica industriale, facendolo ai massimi livelli.
D’altra parte questi due chirurghi del suono hanno preparato molto a lungo la loro operazione più importante dai tempi di Shadowblack del 1997, un altro disco spiazzante, figlio di un’ottica anni ’90 che non esiterei a definire uno dei lavori più importanti dell’electro industrial degli anni ’90, fortemente risucchiato nel vortice della drum ‘n bass. Niente di tutto questo è qui presente, a dimostrazione del fatto che i nostri non vogliono copiare alcunchè. Ascoltando le preview è lampante come chi si aspettasse una scarica di breaks ritmati dovrà tornare indietro e ritracciare la storia degli inglesi, quella degli anni ’80. Sarebbe tuttavia errato parlare di questo disco solo e soltanto da un punto di vista musicale, poichè è il meno importante.
Those nervous surgeons è il nome della prima band in cui i nostri militarono sul finire degli anni ’70, la loro prima incarnazione, e rappresenta, secondo le parole degli Smith, la difficoltà che l’artista-musicista-scrittore trova nel compimento della sua opera. Cesellatore di suoni e di ritmiche, eterno perfezionista, dà vita alla sua forma espressiva con fare maniacale e certosino. Seguiranno gli applausi delle persone e, in questo caso, l’acquisto del disco (si spera), ma nessuno saprà davvero alla perfezione quale processo si trovi alle sue spalle. Ma stavolta il duo ci ha voluto rendere protagonisti di una gestazione durata quasi un ventennio, nel quale hanno visto la luce solo dischi di raccolte. I concept dell’album sono due: la distopia globale e la psichedelia industriale.
Partendo dalle dichiarazioni possiamo aspettarci un lavoro che abbracci la poetica e la filosofia della vecchia scuola, dal punto di vista concettuale così come sonoro, e così è. In questo lasso di tempo c’è stato di mezzo un libro, The eradication of hate il cui primo titolo fu The factory, una delle tracce dell’album e una delle più interessanti. Il libro viene incluso in uno special limited box, per chi fosse interessato a leggerlo. Nello specifico, i dieci brani (ma questa è solo la prima parte di un album che contiene versioni demo strumentali e soprattutto altri brani altrettanto interessanti), parlano di Chiesa così come di politica e di risveglio delle coscienze, il tutto riassumibile come manipolazione dell’informazione da parte dei mass media. Ora, non è senz’altro la prima volta che questo tema viene affrontato in questa musica, anzi, moltissime volte, però forse a volte dimentichiamo quanto sia importante parlarne, in un’epoca in cui la materia industriale catalizza sempre più spesso le proprie energie verso il dancefloor e in cui il beat sta prendendo il sopravvento sulle liriche, ovvero quello che, ai primordi del genere, era una parte essenziale e imprescindibile.
Dimentichiamo che nel mondo ci sono casi come quelli delle Pussy riot, recluse in carcere per un anno e mezzo e forse più con l’accusa di aver violato la morale della Chiesa ortodossa russa grazie ad una performance dissacratoria. I due artisti ce ne parlano nell’emblematica Lock them up. C’è spazio anche per teorie cospirative, per l’attenzione verso gli incendi, per gli omicidi programmati a distanza e per la critica della televisione, che ci allontana dalla strada, che ci allontana dalla verità dei fatti, così come per la già citata tematica della psichedelia industriale, che si nutre di storie fantastiche tra sogno e realtà, tra incubi metropolitani e droga, che risponde al disagio degli individui con la ricerca dei paradisi artificiali.
E la musica? Ah già. Potremmo suddividere questo lavoro in due parti: la prima, quella principale, include dieci brani molto diversi tra loro, sempre e comunque connotati da un’aura definibile come tetra e maligna in cui il decadimento dell’individuo e della società è il mood riflesso anche nei testi (Shadowblack era interamente strumentale). Alcuni di questi brani risentono particolarmente del suono degli anni ’80 e dei campionamenti del Roland TR-808 anche perchè sono stati composti molti anni fa attraverso vari periodi di gestazione. Si pensi appunto alle iniziali Passenger e Man in a suit, così come alla più ritmata Rats in my bed, già presente nell’e.p. Skin and bones uscito di recente. L’elettronica è una materia trattata e raffinata continuamente in un processo che la snatura della sua carica debordante e la sintetizza fino ad estrarne il suo involucro e lasciandone il suono puro e semplice, senza dimenticare che l’anima punk e new wave è qui ben presente, come nei loro primi lavori degli anni ’80. Drone è l’episodio a loro detta più pop, ma che è un buon electro, ma il brano sul quale si discuterà maggiormente è probabilmente Factory, la quale comincia con il campionamento della caduta di una moneta e che rappresenta la quintessenza della musica post-industriale quale materia distopica, narrante i mali della nostra società in un modo ben più semplice che con l’utilizzo di mille parole, qualcosa che i Click click sanno fare meglio di tanti altri loro colleghi.
Questo excerpt viene poi ripreso nella seconda parte dell’album, che la presenta in apertura e in chiusura, divisa in due parti. Un gran brano dark ambient con delle belle atmosfere. Tra gli altri brani vi si trovano anche due episodi più ritmati, più vicini all’electronica e a certi episodi del già citato Shadowblack del 1997, ovvero Captain black e Naudia, che ancora una volta utilizzano strumenti e suoni mai dimenticati, ancora oggi dannatamente convincenti in una veste sperimentale come quella di cui stiamo parlando. C’è spazio per remix strumentali dei brani della prima parte, e poi, al termine, una gran voglia di far ripartire il disco da capo e di cercare di carpire, ogni volta, qualcosa che non si è compreso nell’ascolto precedente, tante sono le informazioni e gli approcci che un lavoro completo come questo può e vuole trasmettere. Da più parti si è letto che questo lavoro potrebbe essere la loro chiusura del cerchio. Spero di non dover ascoltare un ipotetico successore quando sarò ormai padre, ma sicuramente posso sperare che una realtà come questa non sia vicina allo scioglimento.
Label: Dependent
Voto: 9/10