Blackwood – As the world rots away

Pubblicato da Davide Pappalardo il febbraio 14, 2016

blackwood-as-the-world-rots-awayEraldo Bernocchi è un nome che non dovrebbe risultare nuovo agli amanti dello sperimentalismo sonoro italico, e non solo a loro; membro dei Sigillum S insieme a Paolo Bandera e a Luca Digiorgio, il Nostro ha anche collaborato negli anni con il progetto SOMMA, con il bassista Bill Laswell, con Mick Harris degli Scorn, Fehlmann, Harold Budd, Colin Edwin, Gabriele Salvatores e mille altri. Una mente prolifica e instancabile, la quale si è interessata di vari aspetti del mondo sonoro, senza mai fossilizzarsi; non sorprende quindi il suo nuovo progetto firmato Blackwood, in compagnia del batterista jazz Jacopo Pierazzuoli in sede live, dedito ad un doom dai connotati dub semi strumentale (troviamo voci campionate), non lontanissimo da un certo gusto drone che richiama, in parte, gli americani Sunn o))).

Esce ora il primo lavoro As the world rots away per la romana Subsound records, caratterizzato da sei tracce legate al suono sopra citato; un’opera quindi ipnotica, oscura, basata su strati sonori dalla natura dark ambient e su rocciosi suoni pachidermici di chitarra uniti a ritmiche lente ed ossessive, così come ad alcuni campionamenti vocali inquietanti (richiamando in questo i Godflesh più industriali). La disumanizzazione e il rituale dal mantra oppressivo sono quindi protagonisti in un suono che non allieta e non è certo fatto per passare inosservato come sottofondo; l’ascolto attivo e la volontà di vivere scenari sonori apocalittici e striscianti sono richiesti senza sconti, ma in cambio viene donata un’esperienza appagante per chi ama queste sonorità.

Breaking God’ spine si apre con oscuri ululati cosmici alla Lustmord, presto però sostituiti da un suono monolitico di chitarra ad accordatura bassissima, densa e terremotata, la quale, dopo una cesura, si accompagna a dialoghi campionati con voce femminile e colpi secchi da fabbrica; si genera così l’ossessione sonora che, fredda e senza pietà, si espande con i suoi tempi da morte imperante. Distorsioni e ulteriori versi emessi da creature e provenienti da luoghi altri trovano naturale casa in tutto ciò, lasciandoci tutto fuorchè sereni.

Santissima muerte non ha intenzione di mollare il colpo, ripetendo le distorsioni granitiche di chitarra su un substrato tenebroso dall’atmosfera distante, ma non certo poco inquietante; nuove voci campionate con effetti prendono posto tra riverberi vorticanti, mentre la ritmica striscia tra piatti e rullanti, serpeggiando fino ad incontrare dilatazioni cosmiche in cui gli spazi siderali diventano molto più vicini con i loro vuoti che riempiono il cuore dell’uomo di un’inquietudine che in realtà nasce dentro di noi. Sezioni più puramente dark ambient trovano spazio facendo da cesura, salvo poi riproporre i suoni precedenti in una cacofonia mai eccessiva, ma sempre giocata su una ben congegnata apposizione di strati.

Sodom lambisce i territori (tutt’altro che sconosciuti per Bernocchi) del power electronics con i suoi suoni da fucina industriale, distorti e corrosivi, i quali però poi lasciano posto a sommesse e tetre manifestazioni dalle atmosfere imponenti; una spirale sonora che prosegue verso il basso, assumendo toni sempre più inquietanti trascinandoci verso un freddo inferno fatto di fiamme nere che bruciano con il gelo estremo. L’esplosione di feedback squillanti è solo naturale conseguenza di questo crescendo, in un finale cacofonico.

Purtridarium offre arpeggi grevi in apertura, i quali si uniscono poi a piatti cadenzati e a riff rocciosi; si tratta di un episodio più propriamente doom nel senso classico, con tanto di trame di chitarra in cui, piuttosto che il loop meccanico, sono i riff in crescendo a condurre il tutto. Versi vocali trovano spazio insieme a malinconiche melodie accennate, in un’esaltante unione di elementi che sembra essere ottenuta da una band; feroci digressioni distorte tagliano la composizione con alcune ritmiche ripetute dal gusto dub, mentre non tardano a giungere oscurità ambientali che prendono sempre più piede fino a dominare in alcuni vortici, seguiti poi dall’andamento iniziale. Varie le evoluzioni del pezzo, che non rinuncia a fraseggi ipnotici e a colpi di batteria più secchi, in una riuscitissima fusion che, in mani meno esperte, avrebbe avuto ben altri risvolti; largo, quindi, ad imponenti marce trionfanti che ci riportano alle soluzioni cosmiche in chiusura.

Vulture ripropone il gusto per la distorsione pachidermica accompagnata da ritmi altrettanto monolitici, tra riffing terremotante e spettrali effetti lontani; un suono denso e pesante che satura lo spettro sonoro con pochi elementi, creando scenari, ancora una volta, da devastazione esistenziale. I movimenti si ripetono acquisendo toni sempre più battaglieri, non dimentichi di suoni oscuri in sottofondo, i quali completano il quadro con arcane melodie algide ed imponenti; il tutto si rende grandioso al terzo minuto e trenta regalando uno spazio dal sapore quasi progressivo, che ancora una volta mostra tutta la maestria del Nostro. Si torna quindi alle digressioni graffianti e ai toni siderali cari al progetto.

Unrecoverable mistakes chiude il tutto con effetti dark ambient che ormai ci risultano ben familiari, tra onde sonore evocative e squillanti melodie eteree cariche di un certo Sehnsucht che punta al petto; alcune pulsioni di tamburo si affacciano disperse, mentre il crescendo emotivo si affida alla stratificazione di andamenti ripetuti. Un finale inaspettatamente malinconico e “delicato”, in cui motivi di chitarra evocativi trovano casa richiamando certo black illuminato alla Blut aus nord, nonché certe composizioni del Reznor più ambient; un epitaffio più che azzeccato per un lavoro dalle molte sfaccettature.

In sei, spesso lunghe, tracce, il Nostro riesce in quello in cui non pochi fallirebbero nonostante gli sforzi: creare un album che leghi il doom a certe suggestioni sperimentali, senza essere monotono o accademicamente freddo e legato al puro stile. Se una certa oscurità di fondo domina il tutto, le capacità sviluppate nel corso degli anni in vari campi permettono a Bernocchi di darsi a digressioni ed accenni a mondi disparati, senza però mai perdersi e rimanendo legato al suo obiettivo; l’inquietudine è sempre dietro l’angolo, ma a volte è un montante senza pietà perso tra accenni cosmici, altre una malinconia esistenziale tersa che ci trascina con sé in melodie tetre e lontane. Essere sperimentali e piacevoli per l’orecchio (avvezzo a certi suoni, certo) non è così scontato, anzi è molto più facile perdersi in astrusità create solo perché tali; fortunatamente, egli evita totalmente il pericolo, regalandoci un disco che non deve assolutamente passare in sordina.

Voto: 9, 5

Label: Subsound records

As The World Rots Away by BLACKWOOD