Pubblicato da Alessandro Violante il ottobre 1, 2015
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Si sa, con la nascita dei software digitali creare musica è diventato sempre più semplice, ed oggi, quotidianamente, artisti di ogni genere si cimentano trasformando le proprie idee in brani più o meno originali, e saturando di prodotti un mercato musicale che risponde a questa pioggia di progetti con una iperclassificazione, pensata come un aiuto, nei riguardi dell’ascoltatore, per aiutarlo a districarsi nella giungla delle uscite discografiche.
C’è chi si trova bene all’interno di queste logiche, ma c’è anche chi, con spirito avanguardistico e orientato al futuro, sente una gabbia opprimente dalla quale cerca in ogni modo di uscire fuori. Uno dei musicisti più interessanti di questi anni, appartenente alla seconda categoria, è Ophelia The Suffering, artista di cui parlammo già in occasione del debut album di Ecstasphere, la sua creatura più fortemente orientata al rhythmic noise, e dell’album autoprodotto rilasciato a febbraio, Klangporträts I+II, una release per metà appartenente ad Ecstasphere e per l’altra all’altra faccia della sua medaglia, Aphexia, un progetto più orientato ad una declinazione pianistico-melodica dell’IDM. Sono passati pochi mesi, e la Raumklang Music di Dirk Geiger, talent scout che da sempre punta su giovani talenti, ha appena rilasciato il primo album ufficiale di questa particolare creatura.
Si tratta di un lavoro piuttosto importante sia per la musicista che per il panorama musicale del genere: Breathe, questo è il nome dell’album, ripensa l’elettronica per così dire intelligente tramite giri melodici di pianoforte di impostazione classica, violini (saltuariamente utilizzati) e la voce femminile di Ophelia. Rispetto alla sua prima release autoprodotta, Breathe opera uno smussamento del ritmo tarantolato trasformandolo in un ritmo dall’incedere talvolta dub, talaltro più breakbeat, senz’altro più ragionato rispetto ai suoi brani usciti a febbraio e, soprattutto, una maggiore organizzazione delle idee. Seppure il filo logico condiviso da tutti i brani dell’album sia piuttosto palese e le loro linee guida siano tendenzialmente simili tra loro, ogni brano gode di una propria personalità ed è in grado di respirare autonomamente. Il messaggio di Breathe è lo slegamento dalle forme precostituite e la libertà di costruire un suono personale, in cui il background della musicista fa la differenza.
Obey è un esempio molto chiaro di questa idea: è concettualmente un brano che critica l’obbedienza nei confronti del costituito e che invita ad uscire fuori dal già noto (oltre che essere un modo per esternare una opprimente condizione interiore di chi vuole liberarsi di tutti i suoi paletti, ma la relazione musicale-personale è piuttosto evidente), ed è musicalmente un validissimo esempio di come più elementi apparentemente così diversi riescano a fondersi perfettamente, conferendo al brano un perfetto statuto di forma canzone. Qui c’è già tutta la formula di Ophelia: il giro melodico pianistico, i vocals, il ritmo tendente allo spezzato, la distorsione che esplode nel climax espressivo. Ne viene fuori un suono sicuramente più umano e caldo rispetto alle astrazioni matematiche di certi suoi colleghi inglesi, persi tra rarefatte sequenze di 0 e 1.
Ci sono poi quei brani, come la opener Surrender e Drift and dissolve, in cui la componente distorta è più forte così come più forte è anche il clangore ritmico-spezzato, piuttosto intricato (ma senza mai perdere le fila del discorso), e la seconda ha qualcosa anche del suono di Syntech, in particolare quello dei primi brani di Only ruins remain. La massima espressione di questa libertà dagli schermi e dai confini della gabbia ritmica squadrata si ha però nell’ambient sognante di brani come Trembling light, in cui un ritmo fatto di controtempi cresce sempre più verso il climax rappresentato dalle linee vocali di Ophelia e dal suo malinconico giro di pianoforte, per poi esplodere in un patemico mid tempo scandito da beat potenti, ma anche in Anchors (She is my king, he is my guard), un altro brano che nasce ambient e cresce pian piano con un mid tempo cadenzato sul quale si erge un giro minimalista di synth che rievoca, nelle note, certo sound norvegese (non ci vuole molta fantasia per ricollegare quel senso di già sentito a certi accordi appartenenti ai Mayhem di metà carriera), il tutto impreziosito dal classico giro di organo e dalla consueta voce di Ophelia al termine del brano.
Seppure accomunati dal medesimo sviluppo, The blinded and the unseeen e Devoured, enlightened, addicted condividono vorticosi giri di pianoforte, ritmi in mid tempo ed evocazioni classiche, ai quali si contrappongono i più intricati The void e, in particolar modo, la veloce Evermore, brani il cui il ritmo tarantolato e la componente astratta hanno un ruolo di primo piano. Evermore è uno dei brani migliori dell’album e tra i meglio riusciti dell’artista. Float and fall è tutta giocata su un soft mid tempo e giri melodici di pianoforte particolarmente posti in evidenza, mentre la conclusiva Awakening è decisamente più ambient e solare, la giusta conclusione per un album dalle tinte fortemente melanconiche.
Breathe è un polmone verde in una giungla IDM spesso così astratta ed inconcludente, uno dei lavori più creativi nel genere, la cui unica pecca è una certa monoliticità di intenzioni che però, siamo sicuri, in futuro troverà espressioni multiformi. Quello di Aphexia è quindi un debutto molto interessante che sposta i confini del genere un po’ più in là, mostrandone una via alternativa, una novità assoluta, un approccio personale di cui questa musica ha bisogno, ed è inutile negare la grande curiosità rispetto al secondo lavoro come Ecstasphere che vedrà la luce ad ottobre, sempre sotto l’occhio vigile della medesima label.
Label: Raumklang Music
Voto: 9