Pubblicato da Davide Pappalardo il febbraio 6, 2015
Trattiamo oggi uno dei colossi dell’elettronica mondiale degli ultimi vent’anni e passa, recentemente tornato alla ribalta con il suo ultimo lavoro Syro dopo circa tredici anni di silenzio (almeno sotto il suo monicker principale), ottenendo risposte alterne tra pareri entusiasti ed altri con qualche riserva riguardo un lavoro che, sostanzialmente, non muta nulla del suo stile, se non forse per una resa accessibile e semplice; parliamo naturalmente di Aphex twin, l’enigmatico ed estroso protagonista involontario di quella che, in maniera molto limitante, viene definita IDM, dj e virtuoso della musica elettronica che negli anni ha tirato fuori dal cappello soluzioni inaspettate e ritmiche folli, usando i mezzi più disparati.
Sembra che il ritorno sulle scene abbia riacceso il desiderio del nostro di darsi al Mondo: infatti, a pochi mesi dall’album prima menzionato, ora siamo qui a trattare l’EP Computer controlled acoustic instruments pt2 che, sin dal curioso ed incoerente titolo, ci mostra come la volontà, da parte del nostro, di giocare con la musica, ma anche con le parole e coi significati, continui ad accompagnarlo anche ora che non è più un folle ragazzo britannico capace di comprarsi un carro armato per sfizio, ma un uomo di quarantatré anni con figli ed un divorzio alle spalle. Il risultato è un lavoro che si discosta da quanto presentato in Syro, con una sperimentazione decisamente più marcata ed ostica, non sempre votata al formato canzone, anzi, spesso lanciata in siparietti anche di pochi secondi, più legati ad effetti sonori improvvisi piuttosto che a composizioni coerenti e aventi un filo logico.
Descrivere un lavoro di tale natura non è facile ma noi ci proviamo, tenendo conto che solo l’esperienza diretta, qui più che in altre occasioni, può davvero dare un senso a quanto descritto a parole, le quali sono incapaci di dare un senso lineare a quello che non è un lavoro basato sulla razionalità o su concept descrittivi, bensì sull’esercizio sonoro basato sul gusto per il suono stesso; non dobbiamo però aspettarci nemmeno le ritmiche sincopate e spezzate dagli assalti parossistici del passato. Molto spesso gli andamenti sono lenti, impreziositi dall’uso di campionamenti di strumenti a corda e a percussione e da frenesie breakbeat più legate a tastiere di pianoforte e strimpelli, piuttosto che da cacofonie sintetiche giocate sul glitch e sullo spezzato.
Ecco, quindi, mondi ermetici resi in musica, come l’iniziale Diskhat ALL prepared1mixed 13,che ci avvolge in effetti vocali in reverse, salvo poi aprirsi in ritmiche cadenzate e solenni, sottolineate da arpeggi ad accordatura bassissima, grevi e distorti, sui quali si organizzano poi drum sincopate, in un crescendo di elementi in cui man mano si aggiunge qualcosa; il risultato è un’orchestra oscura ma, allo stesso tempo, elegante, che mostra come il tempo non abbia scalfito la capacità del nostro di creare ambientazioni aliene e trascinanti, usando quelli che in mano ad altri sarebbero suoni sparsi e senza significato.
Il gemello Diskhat1 ci mostra, invece, un movimento interrotto continuamente, in cui suoni di pianoforte e batteria continuano a darsi il cambio in un dinamismo continuo giocato sui campionamenti incalzanti; la composizione prende poi velocità in un tripudio di clip e ritmiche, in cui la dissonanza prende sempre più spazio in un’oasi allucinante.
Si prosegue con una serie di mini-clip spesso di pochi secondi o di un massimo di quasi due minuti in cui troviamo suoni di pianoforte, effetti meccanici, vari tipi di percussioni, bizzarri effetti discordanti; è solo col nono pezzo, Disk prep calrec2 barn dance [slo], che si ritorna a tempistiche più lunghe, in questo caso riempite da nuovi suoni cadenzati, quasi etnici nelle loro ritmiche controllate e da percussioni sferraglianti che, ancora una volta, chiamano in gioco la dissonanza greve e caotica.
Il resto del lavoro segue questa linea, offrendo però variazioni sul tema, che ci offrono una evoluzione costante, delineata dall’alternanza improvvisa tra i vari mini pezzi e le parti più lunghe, trascinandosi alla conclusione; dopo l’ascolto, rimane, come un tempo, quella strana sensazione di disorientamento in cui intuiamo di aver percepito una certa musicalità laddove, normalmente, non dovrebbe essercene, e possiamo giurare che quelli che dovrebbero essere campionamenti casuali messi alla rinfusa hanno, invece, un chiaro disegno dietro di essi.
E’ come quando vediamo un film, un’opera, o qualsiasi idea che sia venuta ad altri: certo, è chiaro, naturale, è li, poteva essere fatta ma, senza quella persona che l’ha concretizzata, non l’avremmo mai vista e mai pensata; perché qualcosa di diverso, alieno, alberga in quella mente, capace di vedere connessioni laddove altri non vedono nulla, e di organizzare il caos in materia coerente che trova un senso in sè stessa. Qualcuno potrebbe trovare un rimando ai tempi di Selected ambient works 85-92 nel maggiore gusto ambientale, ma l’interesse per le risonanze e i riverberi degli strumenti acustici, siano essi a corda o a percussione, è tutta di questo lavoro, nuovo piccolo esperimento del rosso folle della terra d’Albione.
Quest’ultima frase potrebbe essere il riassunto di tutta la carriera di Richard David James il quale, in sostanza, continua a fare quello che vuole e come vuole, decidendo quando giocare leggero come in Syro, e quando calcare la mano come in questo caso, facendolo però con le aspettative e le convenzioni, mantenendo un tocco leggero ed armonioso che tratta con facilità, quasi sfacciata frivolezza, l’amministrazione di suoni dalla più disparata natura. Se volete ballare, naturalmente, dovete guardare da ben altra parte; se volete alienarvi per una mezz’oretta circa, Aphex twin è ancora uno spacciatore di fiducia.
Label: Warp records
Voto: 8,5