Pubblicato da Alessandro Violante il gennaio 10, 2013
Le arti digitali festeggiano, lungo il XXI secolo, le sei decadi di vita. In tutti questi anni il dibattito è cambiato, si è evoluto sulla base di come l’ev0luzione tecnico-artistica ha prodotto cambiamenti significativi negli individui che popolano il mondo. A partire dalla video-arte e dai dibattiti sul concetto di audio = video, dalla video-installazione, risultato dell’incontro tra il medium-specchio del video e del pensiero concettuale che trova in Marcel Duchamp e nell’objet trouvée la sua raison d’etre, passando ancora per la computer art e, successivamente, per il concetto di hypermedia e di mixed media, e ancora le derive della virtual art, della telepresence art, della bio art, e oggi dell’augmented reality art (che non è più un’art), la critica è mutata, oggi è molto meno incisiva rispetto al recente passato, ha perso la sua grinta lasciando il posto alla museificazione mondiale (non più così settoriale) di quegli artisti e di quei lavori che, dal citato Duchamp in poi, ma soprattutto dal guru della video art Nam June Paik, hanno riproposto il concetto di Gesamkunstwerk (Opera d’Arte Totale) wagneriano espresso attaverso il medium della videoinstallazione prima e attraverso l’hypermedia poi negli anni della computer art e della sperimentazione che nasce nel codice sorgente interpretato e non dalle macchine con le quali noi, giovani del XXI secolo, ci relazioniamo quotidianamente.
Questa museificazione ha deluso i grandi filosofi e i grandi esperti della fine del ‘900 che immaginavano il concetto di museo virtuale inteso come esperienza virtuale / telepresente coinvolgente l’utente informatico e il suo rapporto con la sede attuale del museo, ipotizzando la fusione tra i due opposti, delle due dimensioni attuale / virtuale. Il museo si trova quindi a dover ripensare sè stesso sulla base dei cambiamenti tecnologici, scontrandosi però con il principio, sempre attuale, benjaminiano, dell’hic et nunc, ovvero del concetto secondo il quale l’esperienza artistica, di qualunque tipo essa sia, si svolge in una precisa collocazione spazio/temporale. Qualora questo non avvenga, l’opera (e l’esperienza) perdono il loro valore auratico. Non c’è dubbio che in questo ci sia del vero, anzi, che ancora oggi il suddetto principio regga in toto il concetto di esperienza artistica. E questo non riveste valore solo nei confronti dell’arte classificata quale tradizionale ma anche nei confronti di tutto quello che nasce come Gesamkunstwerk. E’ indubbio che il modo migliore di usufruire di un lavoro artistico, o, per meglio dire, di viverlo interagendo con esso in un modo o nell’altro, sia quello di essere presente nel momento in cui sia possibile porci come entità fisiche in relazione diretta con esso.
Questo incontro produce una forma di comunicazione diretta tra i due soggetti, indipendentemente dal grado di interattività che viene a stabilisi tra le parti, indipendentemente dalle intenzioni dell’artista e da quelle dell’entità fisica. Alcuni tra gli studiosi più importanti del XX secolo hanno focalizzato l’attenzione sul modo in cui il post-duchampismo abbia prodotto un legame sempre maggiore tra le due entità, focalizzandosi sull’interazione. A prescindere dai discorsi di questo tipo, questa non è una novità in quanto il concetto benjaminiano vale per qualsiasi condizione in cui la relazione avvenga. E la relazione è un rapporto molto intimo, silenzioso, che stimola concentrazione ed esclusione dal mondo che ci circonda, che genera qualcosa che, per quanto avanzata, la virtualità in quanto forma di comunicazione a distanza non può eguagliare.
Su questo dibattito gli Apocalittici e gli Integrati, utilizzando la terminologia echiana, hanno dibattuto fortemente. Gli Apocalittici hanno ripiegato sulla lezione duchampiana e hanno sposato il fenomeno artistico del post-concettualismo anche noto come estetica relazionale, concetto proposto da Nicolas Bourriaud e sviluppato come riesumazione del lavoro di Duchamp riletto attaverso la poetica/politica di Guy Debord (ovvero la relazione come la scoperta di universi nei quali sfuggire alla società dello spettacolo per ricreare una nuova società consapevole). Gli Integrati hanno pensato l’avvento della rivoluzione digitale e multimediale come la distruzione della realtà al posto della quale una nuova virtualità genera nuovi rapporti e nuove consapevolezze, nonchè l’abolizione delle distanze (ma anche quella dei rapporti umani), realizzando una interconnessione mondiale che dia fenomeno ad un tutto che rappresenta l’estremo limite del Gesamkunstwerk.
L’Integrazione di un curatore novantiano come Peter Weibel alle porte del nuovo millennio (e oltre) si esprime nei seguenti termini
Il nuovo comportamento che la generazione più giovane sta acquisendo tramite l’utilizzo del Web (imparando online, “programmando per sè”, non “essendo programmati”, ponendo insieme programmi musicali, modificando video e mettendoli online,etc…) è qualcosa di cruciale per i musei. Se il museo continuerà ad agire in maniera tradizionale – curando allo stesso modo della televisione e della radio e programmando come i curatori, mostrando i lavori che fanno più audience seguendo una certa sequenza e in un certo tempo, il che preclude la possibilità di mettere insieme un proprio programma, il museo diventerà obsoleto.
E se lungo le prossime decadi non ci adatteremo a questo nuovo comportamento che gli utenti/osservatori avranno acquisito tramite il Web, a un certo punto i musei avranno una funzione relativamente obsoleta, dal momento in cui gli osservatori diranno: “Io vado al museo quando voglio riprovare quella sensazione legata al principio del comportamento culturale dei secoli diciannovesimo e ventesimo. Ma quando io voglio avere a che fare con il comportamento culturale contemporaneo, valevole per il ventunesimo secolo, io non posso andare in un museo perchè il museo mi fa assumere un comportamento che rappresenta un passo indietro nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo.”. Perciò io credo che i musei non abbiano altra scelta se non quella di abbracciare questo nuovo modo di comportarsi, modo espresso attraverso la filosofia del Web nei riguardi degli osservatori e degli utenti.
Peter Weibel
Il curatore tedesco, estasiato dal concetto di Web 2.0 nel quale l’utente, allo stesso modo in cui io sto facendo in questo momento, crea il web alla sua maniera e non in una maniera precostituita attraverso la generazione e la modifica dei suoi contenuti, crede che il Web sostituirà l’esperienza museale in quanto, a differenza del secondo, può ospitare tutto quello che viene generato dalla mente umana e artistica, a differenza del museo canonico che è la piattaforma di messa in mostra del Sistema dell’Arte Contemporanea. Così come altri della sua generazione, la piattaforma da lui indicata per questo tipo di sviluppo è Second Life, il sogno del Web 3.0 nel quale la virtualità diventa la nuova attualità e nel quale la filosofia del multiplayer si fonde a quella degli interactive multi-user systems degli anni ’90 di Roy Ascott et. al., passando per i virtual environments immersivi, sempre appartenenti a quegli anni.
Tuttavia il Web rappresenterà in questo senso una parziale delusione in quanto si renderà incapace di sostituire l’esperienza reale delle interazioni umane, e, di conseguenza, anche di quelle museali. Per contro, gli Apocalittici, legati al post-concettualismo sopra esposto, esprimono il concetto di installazione e, successivamente, di video installazione, e rivendicano il concetto di comunicazione tra le parti che sfocia in una fusione, nel concetto di sè che racchiude l’installazione rivelandosi la sua parte principale, il contrario di quanto pensa il visitatore comune.
L’esperienza dell’hic et nunc si contrappone alla visione 24/7 del flux artistico che si concretizza nell’abolizione dell’istituzione museale. Certamente il Sistema ha le sue regole, e sono molto strette, dettate dal marketing e da quello che è trendy. Ma siamo certi che youtube o un cd-rom (come era pratica negli anni ’90) possa stabilire la connessione tra noi e l’opera mondo, che tale è in quanto hypermedia? E’ vero, ogni individuo utilizza quotidianamente, in misura maggiore o minore, il sistema ipermediale chiamato Web, ma è anche vero che il sogno dell’abolizione della realtà in favore della virtualità è assente. Siamo sempre ben ancorati alla realtà ed è anche vero che la visione di un film al cinema o di un’opera-mondo all’interno di una esposizione non può essere eguagliata dal medium del computer.
Il dibattito è ancora aperto e lo sarà sempre.