Martina Raponi – Strategie del rumore

Pubblicato da Alessandro Violante il dicembre 18, 2015

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Passato oltre un secolo da quando Luigi Russolo iniziò ad ipotizzare un utilizzo del rumore in musica, dopo che la tradizione aveva separato nettamente i suoni utilizzabili in musica – le note – da quelli non utilizzabili, il tema è ormai diventato oggetto di numerosi studi in lingua inglese. In Italia, dove gran parte dei libri musicali è dedicata o alle storie dei gruppi o a più o meno enciclopedici manuali sui generi musicali, testi di respiro critico più ampio sono dedicati pressoché esclusivamente alla musica classica o al jazz. In questo quadro, il libro di Martina Raponi è quasi una novità nel nostro panorama editoriale, perché sceglie di non dedicarsi esclusivamente alla cronaca musicale ma tenta la carta di un ragionamento un po’ più ampio sul tema dal punto di vista estetico, declinando per la scena italiana un ragionamento che ha radici nella critica anglosassone.

Non potendo prescindere da tale approccio sul tema, per ragioni non musicali, il centro dell’analisi musicale ruota attorno alla scena giapponese, dopo che, come osservato in una lunga citazione da uno scritto di Masami Akita, dopo il lavoro nella scena newyorchese dei Boredoms assieme a John Zorn, visto che Yamatsuka Eye era anche il cantante dei Naked City, la critica occidentale s’accorse che un’intera generazione di musicisti era all’opera su una proposta sonora basata sul rumore, slegato da intenti meramente scioccanti come nell’industrial di fine ’70, inteso come materiale unico di partenza per lo sviluppo musicale, con la conseguenza che la proposta musicale diventò basata sul dettaglio da isolare in una massa indistinta di suono. Da questa premessa discende, oltre all’analisi dei protagonisti storici del japanoise, una disamina su alcuni personaggi della scena europea direttamente debitori di quell’approccio sonoro.

In questa visione, l’analisi segue alcune direttrici di fondo: una è l’uso del corpo, dato che non solo c’è l’impatto volumetrico sull’ascoltatore dell’harsh noise ma anche, a volte, una performance musicale in cui l’incolumità fisica dei protagonisti viene messa a dura prova, e.g., nel caso di Masonna. Essendo il corpo legato indissolubilmente al tema dell’identità, è un modo per porre in evidenza come il contrasto fra l’aspetto che può essere anche ordinario dei musicisti ed una proposta così estrema diventi la spia che il rumore sia una forma di disvelamento sociale. Colpiscono quindi gli esempi di Vomir, che suona con un sacchetto nero in testa, e di Nascitari, che mette in scena dei tentativi di suicidio, poiché legati ad un’analisi sul rapporto tra la musica e la performance, vista non come (ri)creazione del suono, come nel concerto per come viene comunemente codificato, ma come presentazione visiva dei temi che sono sottesi alla costruzione visiva e, quindi, come componente del significato della musica.

Un’altra direzione è l’uso della tecnologia, dato che l’uso del rumore è giustificato da Russolo come conseguenza della presenza delle macchine nella vita quotidiana e, dal punto di vista sonoro, è lo strumento generalmente usato per la generazione del rumore. L’impatto della tecnologia nella vita quotidiana, con la conseguente massa d’informazioni che deve essere gestita dalle persone, è una delle possibili influenze che possono avere generato una forma musicale basata, in definitiva, sull’accumulo di suoni fino al raggiungimento di una massa compatta. Risulta immediato il parallelo con le esperienze degli utenti dei mass media, che vengono raggiunti da una serie di dati e notizie che non hanno, forse, il tempo di essere analizzate e comprese, generando un effetto ottundente molto simile a quello generato dal noise.

L’ultima direzione è il rapporto con il mondo delle gallerie d’arte ed i conseguenti possibili compromessi che una proposta noise incontra nel momento in cui si confronta con un pubblico alieno a questa proposta e, da questo punto di vista, risulta interessante il parallelo tra Merzbow, che rimane impassibile nella sua proposta sia in un club che in una galleria d’arte, e Nico Vascellari, di cui viene sottolineato come la proposta artistica, pur radicale e rumorosa, risulti descritta, tra le righe, come influenzata dalle consuetudini del mondo dell’arte. L’autrice mette in evidenza come il luogo di presentazione della musica acquisti un ruolo nella ricezione dell’opera e, nel momento in cui viene percepita come vincolante dall’ascoltatore o dal critico, insinui il dubbio che non sia il noise a contaminare le gallerie d’arte, ma viceversa.

Concludendo, Strategie del rumore è un libro che pone più problemi e spunti d’analisi e non un monolitico punto di vista sull’argomento, non essendo, dichiaratamente, votato all’analisi musicale esaustiva, quanto al senso dell’uso del rumore inteso come semantica del suono. Riconoscendo che il rumore è una conquista della modernità ed un concetto sfuggente, visto che è definito per ciò che non è – ad esempio, in teoria dei segnali il rumore è tutto quello che non è un segnale o impedisce la comprensione dello stesso – mette in evidenza come questo lo renda un punto privilegiato d’analisi dell’esistente.