Pubblicato da Davide Pappalardo il novembre 16, 2015
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Michael A. Holloway è un nome che forse suonerà nuovo a chi non segue la scena electro-industrial americana del nuovo millennio, ma familiare a tutti gli altri; mente dietro al progetto Dead when I found her, il musicista di Portland ha già creato due album di musica dal gusto cinematografico e noir, in cui la lezione di Skinny Puppy, Front Line Assembly, Numb, ed altri, viene ripresa con un certo gusto per rielaborazioni curate ed atmosfere, gusto che può richiamare la meticolosità di un gigante come Trent Reznor. Si tratta di Harm’s way (debutto del 2010 che ha sorpreso molti fautori dell’old school), e del suo seguito più “pop” Rag doll blues (qui la recensione) del 2012, entrambi sotto Artoffact records, importante label canadese del settore; ora, sempre per quest’ultima, il Nostro torna con l’ambizioso All the way down, un concept album che cerca di esplorare, nel modo più sincero e privo di fantasie, il concetto di morte come parte inevitabile dell’esistenza.
Il tema non è certo nuovo, ed anzi è stato spesso la Musa preferita dalla musica estrema ed underground mondiale, dal metal (black, death, doom, etc.) all’industrial, al post rock, al dark, e chi più ne ha, più ne metta; la novità sta nell’intento analitico qui apportato, in cui si cerca di evitare romanticismi o fantasie, rendendo forse il tutto ancora più inquietante, mettendoci a nudo di fronte ad un concetto che cerchiamo di evitare per tutta la nostra vita, ma che è ineluttabile; il disco è presente anche in versione deluxe, contenente il disco bonus The bottom, in cui troviamo alcuni inediti, tra cui un’ottima cover di You know what you are dei Ministry (proseguendo la tradizione del musicista statunitense, che ha già rielaborato, tra gli altri brani, In the air tonight di Phil Collins e Down in it dei Nine inch nails), versione quindi consigliata in quanto arricchisce l’esperienza qui presentata.
E la musica? Beh, diciamo che il Nostro non ha certo fatto una svolta a 360 gradi, continuando, invece, il suo percorso artistico, ed evolvendosi a partire da coordinate ben precise già presenti; si tratta di un affinamento delle proprie armi, con una produzione ancora più professionale e matura, ed un songwriting che integra in modo organico la sensibilità pop e il gusto per le atmosfere cinematografiche ed oscure che caratterizzano il progetto.
Si parte quindi con la intro ambient di Expiring Time, seguita da un pianoforte sorretto da delicati effetti elettronici, in cui la voce di Holloway si dimostra più matura, sempre derivata dalla lezione di Nivek Ogre, ma ora più piacevole e intonata, adattandosi alla musica più organizzata qui presente, suadente in modi vicini all’australiano Snog; ritornelli delicati e parti d’ambientazione si uniscono in un andamento mai violento, ma pieno di strutture sapientemente stagliate, in un crescendo emozionale controllato, ma ben presente.
Il disco prosegue con le sperimentazioni spezzate alla Skinny Puppy di The unclean, una sorta di pastiche di campionamenti, mentre Threadbare ci porta su versanti più minimali, in cui la voce del Nostro, effettata per mezzo del vocoder, trova spazio tra crescendo di tastiera e ritmica, mantenendo però sempre un certo controllo melodico; Gathering fear preferisce il gusto ambient, facendo da suite, in cui nuovi effetti inquietanti accolgono la voce del cantante, per contrasto appoggiata su suoni ariosi, prima di passare a parti rituali sincopate. Downpour contrappone una natura angelica quasi trip hop in cui, ancora una volta, il vocoder trova ottimo utilizzo.
Non mancano altre sperimentazioni: Misericordia è un’unione di parti cinematografiche e pulsioni sofferte di pop industriale, tra ritmi spezzati e note di piano, in cui Holloway si districa tra fischi falsamente allegri con vocals supplicanti, mentre Blood lesson riporta sulla piazza il gusto per l’electro-industrial anni ottanta caro al Nostro, e Seeing red ci sorprende con epiche ritmiche elettroniche e corrosivi riff campionati, dal gusto rumorista; The noise above us è un’escursione dark ambient dalle atmosfere aliene, sulle quali presto si aggiungono la voce crudele e i ritmi oppressivi, completando perfettamente l’atmosfera cupa qui perpetrata, mentre liriche linee vocali femminili si aggiungono con gusto inaspettato. At rest ripresenta suoni ariosi sui quali si dispiegano ritmiche minimali, dando poi spazio a crescendo epici dal gusto decisamente filmico, con tanto di suoni di tromba e ritornelli ammalianti, terminando perfettamente il lavoro.
Il disco della maturità per Holloway, il quale, finalmente, è riuscito a coniugare in modo coerente le sue varie anime, con brani che spaziano anche all’interno di loro stessi tra stilemi pop, pulsioni industrial, sezioni ambient e gusto cinematografico; le sue ispirazioni sono ben presenti, ma diluite e riformate in un’identità tutta Sua, in cui, certo, l’obiettivo non è il dancefloor, bensì un ascolto intimo e personale, ricco di sfaccettature ed evoluzioni. I segnali del passato vengono portati a compimento, iniziando, speriamo, una strada in ascesa per il Nostro, che ora è padrone del suo gioco, dopo un’evoluzione fatta anche di esperimenti ed aggiustamenti; un disco consigliato caldamente ad ogni amante della musica elettronica fatta con il cervello e con l’anima.
Label: Artoffact records
Voto: 9