Pubblicato da Alessandro Violante il maggio 22, 2015
Sebbene i Pure Ground siano diventati oggetto del pubblico interesse solo di recente grazie alla promozione delle fanzines di settore (e, negli ultimi giorni, grazie all’attenzione riservata loro da parte della ben nota Sleepless records), la storia del duo formato da Greh Holger e Jesse Short è molto più corposa di quanto si immagini e legata a quella della Chrondritic sound, la label del primo, già attiva a partire dal 2002. Muovendosi da Detroit a Los Angeles, i due si sono ben presto inseriti all’interno di quel contesto electro industrial californiano che ha già dato i natali ad esponenti piuttosto noti, seppur ancora giovanissimi, e che sta vivendo la fase del suo massimo sviluppo.
I riconoscimenti sono già arrivati: il duo si trova già impegnato in un tour con uno dei maestri del genere, i Front 242, ed è strettamente legato al contesto sottoculturale e insieme musicale dei vari High-functioning flesh e Youth code, giusto per citare due nomi. Così come un tempo la California ebbe un ruolo decisivo per quanto riguardò lo svilupp0 della musica industriale, oggi, dopo anni di silenzio apparente, ben celato da una coltre chiamata underground che ben pochi vagiti fece trasparire fino a pochi anni fa, uno dei poli artistico-sperimentali più noti degli Stati Uniti torna prepotentemente a mostrare le sue idee, certo, spesso derivative, ma senz’altro oneste, alcune delle quali sono contenute in Standard of living, il primo lavoro ufficiale del duo.
Sebbene non lo si possa di certo definire un album particolarmente originale, debitore com’è dei primi Front 242 ma, soprattutto, dei primissimi The Klinik, si sbaglierebbe nel non applaudire un disco che, nella sua onestà intellettuale, propone nove episodi di electro minimalista ridotta all’osso, sormontata da un cantato stentorio e distante, anche grazie agli effetti applicati alla voce. Il nuovo minimalismo trova nei due il punto più alto, in quanto l’operazione di riduzione della gamma dei suoni utilizzati ed il ricorso ad espedienti del passato, primi tra tutti gli effetti applicati alla voce esplorati sul finire degli anni ’80 dalla scuola canadese e, in particolare, dagli Skinny puppy, si fondono con un approccio che paga un debito ugualmente importante alla storia delle prime realtà belghe ma anche a quella della wave più oscura e drammatica (soprattutto dal punto di vista testuale).
Il disco, relativamente breve, alterna, musicalmente, episodi più decadenti a raggelanti balletti légeriani e a intermezzi deliberatamente debitori della vecchia scuola: si pensi a L’image, un brevissimo episodio ambientale di natura cinematografica che fa pensare a decine di realtà che nei primi anni ’80 si dilettarono nel compiere lo stesso tipo di operazione. Uno dei migliori brani, nonchè tra i più originali e, allo stesso tempo, debitori della band di Nivek Ogre, è The glory of absence, tutta giocata su echi, effetti e suoni tarantolati appartenenti ad epoche piuttosto lontane, quali quelle dell’electro industrial dei primi anni ’80. Tutti i brani, sia quelli più convulsi che quelli più riflessivi, condividono un mood distopico, critico e, in un certo senso, apocalittico, e questo viene evidenziato non tanto e non solo nei testi, quanto negli stessi brani, che vengono impreziositi da suoni ed atmosfere decadenti e di origine goticheggiante, talvolta quasi al limite del triviale.
Già dalla cover artwork, Standard of living vuole essere un disco retrò, ispirato, com’è, all’universo concettuale dei gruppi black metal norvegesi, pur essendo fondamentalmente un disco a metà tra l’electro industrial più minimalista e la wave più legata ai clichè di genere. Alla seconda appartengono i brani più lenti, come In silence e Tides, mentre la veloce e ritmata Centuries in gold si muove con cadenze punk senza renderne, tuttavia, una carica che il minimalismo, con ciò inteso anche quello ritmico (specie di matrice wave), difficilmente riesce a rendere tangibile: sembra piuttosto un agile synth pop decadente. Ci sono poi i classicissimi balletti a-la The Klinik in Watch the lines grow, War in every house e la già nota Poison, nota perchè spesso condivisa sui gruppi di settore e sui social network. L’opener Second skin è uno degli episodi più completi e da annoverare tra i migliori, ma, nella loro semplicità, tutti i brani hanno più di qualcosa da dire, seppure non si facciano mai portatori di un nuovo, originale, verbo.
I Pure ground sono un’ottima fotografia di quel che oggi l’electro più oltranzista e minimalista ha da offrire, ma forse non è sufficiente a risollevare la crisi profonda che il genere ha attraversato e che sta, tuttora, parzialmente attraversando. Pur non possedendo una particolare originalità, il duo californiano rappresenta una piacevole sorpresa, che ci fa spesso ripensare alla prima electronic body music così come agli scritti della Scuola di Francoforte e a quelli di Guy Debord. Da scoprire.
Label: Chrodritic sound / Sleepless records / Avant! records
Voto: 7, 5