Pubblicato da Alessandro Violante il aprile 19, 2015
Sembra impossibile, ma sono già passati ben dodici lunghi anni dall’uscita dell’ultimo capitolo della trilogia di Matrix, il capitolo Revolutions che, neanche a dirlo, ha influenzato dozzine, anzi, centinaia di progetti di musica elettronica. Guardando la storia del genere con gli occhi di oggi, non è certo una eresia considerare l’opera magna dei fratelli Wachowski una fonte di ispirazione della cultura elettronico-distopica e industriale al pari dei racconti di Philip K. Dick o delle teorie, mai eguagliate, di Burroughs e Gysin o ancora dei lavori di H.R. Giger e, conseguentemente, della tetralogia di Alien.
Almeno concettualmente, Gore Tech, nome d’arte di George Flett, inglese ma emigrato in Germania alla corte della Ad noiseam, è l’ennesimo narratore di un finale alternativo della suddetta trilogia, è l’ennesimo artista ispirato dal film, ma quello che differenzia un disco d’esordio come Futurphobia (dopo anni di gavetta con label importanti) da quanto prodotto da altri artisti affascinati da quelle tematiche distopiche, legate al concetto di postmoderno che viviamo quotidianamente (e implicanti i concetti di despazializzazione, alienazione, problematiche legate ai concetti di interazione e virtuale), è la sua musica, è la voglia di mescolare, con grazia sopraffina, tarantolati ritmi spezzati di chiara derivazione inglese e freddezza sonora, nonchè produzione asettica, chiaramente teutonica.
Nato nella terra del groove e dell’electronica, del big beat ma anche della jungle e della drum ‘n bass, e più recentemente della dubstep (includendo in questa categorizzazione anche le sue varianti drumstep, darkstep, e chi più ne ha più ne metta), Gore Tech parte verso la Germania con la sua valigia piena di ritmi tarantolati e convulsi, mette il tutto in congelatore (con Zion e le macchine nella testa) e ne tira fuori il risultato. I ritmi sono ormai privi di ogni forma di vita, alimentati solo dalla loro stessa essenza digitale, da sequenze di 0 e 1, e i suoni sono direttamente provenienti dalle macchine e diretta espressione delle visioni distopiche che raffigurano l’ideale paesaggio del futuro, un futuro dominato dalle macchine, in cui gli uomini vengono schiavizzati.
Fantascienza? Non proprio. Gore Tech non ci racconta frottole, ma un mondo in cui, come afferma Matrix, l’interfaccia è costruita su misura per non far porre domande ma per schiavizzare, ed è un po’ quello che viviamo nella nostra quotidianità, indipendentemente dal punto di vista delle fazioni opposte: Apocalittici e Integrati, scrisse Umberto Eco, e il dibattito è ancora particolarmente vivo, perchè ci riguarda da vicino. Gore Tech non è certo un semiologo, e questo non è lo scopo del lavoro in questione, ma l’idea che si cela dietro l’album può fornirci una chiave di lettura per comprendere un po’ meglio di cosa si parli.
Musicalmente parlando, la mescolanza di stili (breakbeat, breakcore, drumstep, drum ‘n bass, electronica, dubstep) dà luogo un un pout pourri che, a seconda dell’episodio, disorienta con sfuriate breakcore (in cui, comunque, coesiste la mescolanza dei generi, il che contribuisce ampiamente a non annoiare mai) come in The ghost particle e, ancor più violentemente, in The plague of Zion, alternate a brani più semplici dal punto di vista del songwriting ma estremamente groovy come la sincopata Optical hybrid, già brano promozionale dell’album (forse il più facile, ma altrettanto raggiante, che mantiene, tramite il sample, una sorta di legame con il suono jungle inglese) o come The zerofinity event, mid tempo trascinante e ansiogeno.
Dubwar è l’episodio dubstep più duro e serrato, e Hex spectrum gioca tutto su un groove che, nella ritmica, ha molto dell’hip hop destrutturato e congelato, uno dei migliori episodi del lotto. Viene dato largo spazio anche a brani più meditati, in cui la costruzione si fa più ragionata, meno progressiva (come si potrebbe definire la sua musica in taluni casi) come nelle mid tempo e angoscianti Organica (questa più melodica),alla quale fa da contraltare la maestosa marcia di Mechanica (questa con Hecq) e la lenta e ambientale In exilium, trainata da un breakbeat che si insinua, partendo dal sottosuolo, pian piano fino al cervello. Chiude degnamente il rework di Stems, brano dell’altrettanto funambolico compagno di etichetta Machinecode, un mid tempo dubstep al vetriolo.
Gore Tech è, senza ombra di dubbio, uno dei più talentuosi giovani esponenti del suono spezzato e dubstep in circolazione, un musicista per cui le definizioni di genere non sono sufficienti, nè renderebbero al meglio la sua musica. Quello di Gore Tech è uno dei lavori che fotografa al meglio il suono Ad noiseam e la direzione più sperimentale e avanguardistica verso la quale la musica ballabile, termine da prendere estremamente con le pinze, si sta spostando (nonostante tre dei brani contenuti, The plague of Zion, Dubwar e The ghost particle, fossero già stati rilasciati nell’ep Machine throne del 2013). Non vi resta che ascoltarlo e immergervi nella vostra nuova, desertica realtà.
Label: Ad noiseam
Voto: 8, 5