Pubblicato da Alessandro Violante il aprile 16, 2015
Il power electronics è sicuramente un genere musicale oltranzista nel suono e nei testi, ma che possiede un proprio, complesso, linguaggio. Chi volesse entrare in un disco come quello di Le cose bianche, progetto di Giovanni Mori, dall’emblematico titolo Pornography should not be an illusion, dovrà necessariamente approcciarvisi con una particolare attenzione per i dettagli e per ciò che si cela dietro la fitta nube di rumore che funge da maschera che separa il mondo della musica da quello del rumore, ma, soprattutto, il nostro Io manifesto dalla voce del nostro subconscio.
Sebbene, in questo lavoro, il musicista chiarisca che l’idea della pornografia che egli vuole dare sia scevra da un qualunque statuto artistico, non è certo inopportuno parlare dell’album in termini estetici, non descrivendolo come un rumoristico assalto brutale all’arma bianca, come potrebbe invece essere interpretato ad un primo, svogliato ascolto, magari dallo stereo del proprio computer, ma come una operazione di recupero e di prosecuzione della primordialità dell’idea e dell’estetica industriale portata avanti da realtà come i Throbbing Gristle ma, anche e soprattutto, dalla creatura Whitehouse, capostipite del genere.
Laddove il beat ha preso con sè la componente industriale trasformandola in un concetto post-industriale e dando luogo a moltissime storie e sottoculture correlate all’interno del suo macrocosmo originario, la strada intrapresa dal power electronics si è contrapposta a questo fenomeno evolutivo e ne ha creato uno personale, basato sulla filiazione diretta con i propri padri musicali, costruendo, anche e soprattutto in Italia, uno stile vero e proprio con le sue peculiarità. Seconda parte di una trilogia sul tema scioccante della pornografia, incentrato sull’abbattimento di qualsivoglia statuto artistico legato alla pratica, il paragone con quanto svolto da COUM transmissions è presto detto: la pratica dello shock torna ad essere il fulcro di quanto viene realizzato, il noise torna ad essere lo strumento per sezionare la realtà, come in un film di Mario Schifano, con precisione chirurgica.
Ad ogni modo, se si prova ad oltrepassare quella barriera, la cosa bianca, potremo scoprire che chi afferma che il power electronics sia un genere senza una ritmica ne dia un giudizio piuttosto affrettato. Qualunque tipo di musica ne ha una interiore, ed entrando in sintonia con quanto prodotto dal musicista, potremo ascoltare echi di Dive e di Sonar in brani come The verge of pornography e Succuba’s purge, composti insieme ad Eraldo Bernocchi, mostro sacro dell’ industrial italiano, mente del progetto Sigillum S (il più noto tra tutti), ma anche cavalcate ritmiche allo stato brado come Suburra’s mouth coated, questa insieme alla Macelleria Mobile di Mezzanotte. Tutto fa pensare che i protagonisti del filone powernoise, ma anche e soprattutto lo stesso Dirk Ivens, abbiano studiato a lungo la materia, prima di metabolizzarla e di trasformarla in forma canzone, se così si può dire.
E’ indubbio che la formula dell’artista sia affascinante, così come lo è sicuramente fare qualsiasi cosa per la prima volta. Ecco, questo è quanto fatto da Le cose bianche: ricreare quella sensazione di scoperta del nuovo, di straniamento, di stordimento che questa indubbiamente genera. E’ anche l’arma a doppio taglio dell’artista e, più in generale, del genere. Se da un lato c’è la gioia (se si può parlare al proposito di un sentimento positivo) nel creare ogni volta il big bang from scratch senza curarsi di alcun genere di paletto di sorta, è anche vero che si rischia di finire in un ciclo for per il quale non sia prevista una concreta condizione di uscita. Di certo, quando la ritmica entra nel flux sonoro, si perde un po’ della magia iniziale, e questo è indubbio. Non è un problema di Giovanni, che continua imperterrito per la sua strada, macinando la sua particolare mistura di ritmiche primordiali e distorte e panorami noise che proteggono il nocciolo, la sua ritmica interiore, a volte così difficile da scorgere.
In questa riunione di pezzi da novanta, c’è largo spazio anche per altre due leggende italiane come Wertham e Sshe retina stimulants, che riescono perfettamente a ricreare quella sensazione di vuoto cosmico, perchè il rumore ci può svuotare da quello che ci portiamo dentro, quando entra nelle ossa di chi vive il momento del live o, anche, semplicemente di chi ne ascolta le emanazioni. Questo magico trio ci porta in viaggio verso pianeti sconosciuti, facendoci ascoltare brani il cui gusto per il suono analogico (che qui crea la ritmica interiore di cui sopra) e le secchiate di petrolio lanciate contro un’ambient indifesa, che decade inesorabile in forme cacofoniche e spacey, ci fa sentire sul set di Alien, fianco a fianco con Sigourney Weaver. Quel che viene fuori da questi primi brani è una comunicazione aliena sconnessa e distorta, cacofonica e distopica, che fa salire in noi l’ansia e quel particolare e angosciante senso di inadeguatezza, quella sensazione di non essere più al sicuro. Ci pensano poi le ritmiche marziali a riportarci sul pianeta Terra, come quando, sudati e in preda ad un incubo, ci ritroviamo nel nostro letto.
Pornography should not be an illusion non è, quindi, un semplice incontro tra musicisti di indubbie qualità e rilevante percorso musicale, nè un semplice frammento di una imponente e scioccante trilogia, quanto un insieme di sensazioni, emozioni ed esperienze che, e questa ne è la dimostrazione, il rumore può trasmettere tramite le sue vibrazioni e le sue ritmiche primordiali. Che il vostro viaggio personale abbia inizio.
Label: Naked lunch records
Voto: 8