Pubblicato da Davide Pappalardo il marzo 11, 2015
Realtà tutta italiana, i giovani Vitrea vengono da Udine e hanno già all’attivo un EP, Broken machine e l’album di debutto Nadir; in questi lavori il loro suono era influenzato largamente da un certo doom gotico alla Katatonia e da velleità progressive oscure care ai Tool. Ora il cantante e bassista Livio Caenazzo, il chitarrista Mattia Romano e il tastierista Daniele Dead Bones si ripropongono in una nuova veste con Songs of glass, il quale abbraccia forti connotati elettronici tra Nine Inch Nails, Depeche Mode e la scuola cold wave di stampo americano in generale (si pensi a nomi come 16 Volt o al Manson della seconda metà degli anni novanta). Un elettro rock che non è quindi certo più una novità, ma che è capace di regalare buoni brani a chi segue il genere, che negli ultimi anni sta ritornando in auge dopo un lungo periodo di “letargo“.
The burning sun ci accoglie con un fraseggio greve a cui segue un riffing roccioso e accompagnato nei suoi giri da una drum machine pestata e cadenzata, mentre la voce “sleazy” e lisergica di Livio si dipana suadente, aprendosi insieme alla strumentazione in ritornelli ariosi sottolineati da melodie di tastiera; il modus operandi è quello tipico della scuola Reznor, tra montanti taglienti ma controllati e parti più evocative e ragionate.
January è invece una sorta di ballad sintetica dagli arpeggi ad accordatura bassa e dalle pulsioni trip hop, sulle quali si distende la voce sognante del cantante; presto troviamo melodie in loop e ritmi a marcia spezzati per un momento d’atmosfera, ma al minuto e quarantasei l’andamento si fa più serrato con effetti gotici e un riffing in loop più incalzante; difficile non pensare al Gary Numan degli anni duemila e alla sua commistione di elettro, dark e tendenze pop.
The white road prende, invece, la direzione del revival anni ottanta da pista, con tastiere italo disco e ritmi sintetici incalzanti, il tutto poi accompagnato dalla cadenzata voce di Livio e da basslines oscure; a tratti sembra un pezzo dei Covenant, mostrando certe influenze tra elettro-dark e future pop un po’ fuori tempo massimo, ma che svolgono egregiamente il loro lavoro.
Uranium è più sperimentale, con le sue digressioni distorte accompagnate da una drum machine meccanica; presto si sviluppa in un brano sognante e controllato, giocato su beat lenti e pesanti e sulla prestazione vocale del cantante, suadente come sempre. Un suono sospeso ed evocativo, che non decolla, decidendo invece di promulgare un’atmosfera interrotta solo dal ritornello struggente sottolineato da fraseggi melodici.
Indigo waves ci ricorda non poco i Ladytron di Velocifero, con le sue tendenze synth e le sue tastiere ammalianti, anche se i vocals maschili prendono una direzione più acida; i beat si fanno più serrati in una nuova soluzione fatta tanto per la pista quanto per l’ascolto casalingo; ancora una volta i nostri dimostrano di preferire il gioco di atmosfere piuttosto che un assalto feroce e diretto, dando molto spazio alle loro trovate elettroniche.
Tirando le somme, si tratta di un disco che non rivoluziona nulla se non il suono finora presentato dai Vitrea, spostandoli verso un elettro-rock che si sa mantenere vario nei brani qui proposti, usando comunque armi appartenenti ad ormai più di vent’anni di sperimentazioni tra il verbo rock e quello elettronico; non tutte le band devono necessariamente creare qualcosa di nuovo e, più si prosegue, più questo diventa difficile. Anche il rifarsi al passato e creare un buon prodotto può essere una buona soluzione, come in questo caso; certo. Speriamo che i nostri in futuro riescano ad approfondire il discorso mescolando le carte e, magari, offrendo anche qualche assalto più incisivo, giusto per dare punte esaltanti alla loro opera.
Label: Autoproduzione
Voto: 7