Pubblicato da Alessandro Violante il dicembre 10, 2014
C’era una volta il sogno del Panopticon, la prigione circolare in cui, dalla sua torre d’avorio, il direttore poteva osservare contemporaneamente il comportamento di tutti i prigionieri, consapevoli a loro volta della propria condizione di osservati ma incapaci di sfuggire. Concetto passato attraverso innumerevoli libri di critica sociale e di filosofia e attraverso il 1984 orwelliano, questo è presente ancora oggi più che mai. Sono cambiati i mezzi di controllo sociale ma l’idea di Jeremy Bentham non è affatto tramontata.
Ora riflettete sulla nostra condizione sociale massmediatica, riprendete in mano i testi di Debord, di Horkheimer e di Adorno e fatevi due conti: scoprirete che la manipolazione dell’informazione attraverso i media ci ha spinti sempre più all’interno delle nostre piccole celle separate da mura sempre più invisibili, inquantificabili e, per questo motivo, difficili da valicare, osservati dal Master of puppets che tira le fila. Sì, è sicuramente una visione piuttosto pessimistica, condivisibile o meno, ma è quello di cui avrete bisogno durante l’ascolto di Faction, l’album di debutto di Swarm intelligence, pseudonimo di Simon Hayes, compagno di etichetta del più celebre Monolog, assolutamente non meno talentuoso e geniale. La label in questione è appunto la Ad noiseam.
Dopo aver chiuso gli occhi verrete trasportati mentalmente nella vostra cella, grigia come la copertina dell’album, come l’acciaio inossidabile dei lenti e pesantissimi rintocchi che scandiscono i confini delle mura invisibili. Oppressione è una parola che descrive alla perfezione il mood di questi dieci brani pesanti e inquietanti. In un episodio come la opener False flag, in cui i suoni rievocano un paesaggio postnucleare scandito da suoni e beat riconducibili agli strumenti utilizzati nei cantieri, al confronto il buon vecchio Bunkertot 7 vi farà sorridere. Antenna, uno degli episodi più belli dell’album, comincia a costruire sulle macerie servendosi di un giro melodico malato e disumano e di un ritmo spezzato costruito con quello che il luogo offre: macerie, pezzi di acciaio e poco altro. Anche qui pochi suoni ma usati bene, che esprimono molto bene il mood ansiogeno e claustrofobico che si respira tra questi solchi. Nel cielo grigio photoshop di Motionless sky entrano in scena anche i suoni distorti aventi il compito di amalgamare il composto, sortendo però un effetto diverso: la cupezza e la monoliticità delle frequenze sonore non lasciano scampo alle speranze dei prigionieri del Panopticon, i quali vengono sempre più oppressi dall’aria cattiva e dai suoni lancinanti. Il tempo, sempre lento, è inesorabile e sembra non concludersi mai, in un ciclo che sembra doversi ripetere senza fine.
La seguente Outpost continua nella direzione precedentemente seguita ma la rilegge nell’ambito di una darkstep particolarmente lenta, disturbata e privata di qualsiasi forma vitale, trasformata in martello pneumatico che scandisce un tempo anche qui lentissimo e inesorabile. Se Run interference, sempre giocando con i rumori e le poche variazioni utilizzate nelle distorsioni (sempre secondo la regola del less is more), si poggia su un ritmo meno monolitico, più intraprendente e squadrato, la successiva The sinners lie in the forest è un episodio dark ambient in cui, per la prima volta, le distorsioni (sempre giocate sull’utilizzo di una misera manciata di variazioni) costruiscono la trama melodica, termine da prendere estremamente con le pinze. Si tratta pur sempre di un accenno che genera angoscia da tagliare con il coltello, ma l’atmosfera è quella cupa, inesorabile, desiderata.
A partire da Infiltration comincia una serie di quattro episodi particolarmente interessanti perchè, a differenza dei precedenti monoliti lenti e pesanti, qui si comincia a giocare con il noise e a lavorare sulla manipolazione delle ritmiche, rendendole meno omogenee e, in generale, movimentando un po’ la situazione (sempre relativamente, in quanto lo scopo dell’album, lo si sarà capito, non è far ballare). A tal proposito, Infiltration comincia con una successione e un intreccio di rumori che, pian piano, fanno emergere una ritmica mid tempo in cui lo spettro delle variazioni nelle distorsioni si amplia ancor più annientando le nostre ultime resistenze auricolari, grazie alla profondità dei suoni utilizzati. Destroyer è forse il brano più interessante e anche quello in cui il ritmo, partendo dalla base di unbreakbeat, costruisce un mid tempo spezzato che fa anche battere il piedino. Pause rumoristiche e atmosfere industriali completano il quadro.
Resurface è una sinfonia per treni e fabbriche, con i suoi suoni che rimandano alla ferrovia e al treno in movimento sui binari così come ai meccanismi di depurazione delle fabbriche. La conclusiva Departure torna a tracciare coordinate dark ambient (che comunque non manca mai in tutto il lavoro), in cui la ritmica è costruita sull’utilizzo di suoni che non hanno nulla da invidiare alle lastre di acciaio battute a suo tempo dagli Einstürzende neubauten. Qui il ritmo si fa più sincopato e il brano si conclude con gli ultimi, insistiti, battiti che non presentano tracce di vita.
Riassumendo, si tratta di un lavoro di elettronica downtempo fortemente distorta, industriale nel senso originario del termine, che rende omaggio, a suo modo, ai maestri del passato (e al pilone autostradale di Blixa Bargeld), il tutto inserito all’interno di un grigissimo dark ambient il che rende l’aria irrespirabile e le atmosfere ansiogene, opprimenti, claustrofobiche. La colonna sonora perfetta per la prigionia mentale del terzo millennio. Il Panopticon è stato ricostruito.
Label: Ad noiseam
Voto: 8, 5